Aprile 2018

 

Molto buono il livello di consapevolezza dei cittadini. Il 70% degli intervistati conosce almeno una delle patologie cutanee più diffuse come psoriasi, dermatiti, orticaria e i tumori cutanei

Gli italiani conoscono le malattie della pelle, frequentano regolarmente il dermatologo e hanno una buona considerazione del loro specialista. E il 57% effettua il controllo dei nei almeno una volta l’anno. È quanto emerge da un’indagine condotta da Doxapharma e pubblicata sull’ultimo numero del “Journal of the European Academy of Dermatology and Venereology”. “Lo studio – spiega il prof. Giampiero Girolomoni, direttore Dermatologia dell’Università di Verona e uno degli autori dell’indagine – è stato effettuato su un campione di circa 1.500 adulti distribuiti omogeneamente sul territorio nazionale, di cui oltre la metà con un livello di istruzione medio-alto, un’occupazione fissa e con almeno un figlio in famiglia. È emerso che il 70% degli intervistati conosce almeno una delle patologie dermatologiche più diffuse come la psoriasi, le dermatiti, l’orticaria e i tumori cutanei”. “Il dermatologo è tra i medici specialisti più consultati dagli italiani che dimostrano anche di avere una buona conoscenza dei tumori della pelle e delle loro cause. Infatti il 64% indica tra i principali fattori di rischio la prolungata esposizione al sole – afferma il prof. Piergiacomo Calzavara Pinton, presidente Società Italiana di Dermatologia medica, chirurgica, estetica e delle Malattie Sessualmente Trasmesse (SIDeMaST) -. Sappiamo che la diagnosi precoce è fondamentale, in particolare nel caso del melanoma, il tumore della pelle più aggressivo. Se individuato in fase iniziale, può essere eliminato con un intervento chirurgico e le possibilità di guarigione superano il 90%. Per questo dobbiamo raggiungere tutta la popolazione, soprattutto coloro che ancora ignorano i danni del sole, con campagne di informazione sui rischi legati alla scorretta esposizione ai raggi UV”. 
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La scoperta dell’équipe Paleopatologia dell’Università di Pisa pubblicata sulla rivista The Lancet Oncology

Un tumore osseo di mille anni fa, il più antico nel suo genere mai rinvenuto, è stato scoperto dall’équipe della divisione di Paleopatologia dell’Università di Pisa coordinata dalla professoressa Valentina Giuffra. Si tratta di un osteoblastoma che ricercatori hanno diagnosticato nel seno frontale del cranio in uno scheletro datato al X-XII secolo e portato alla luce durante gli scavi archeologici condotti nel 2004 presso il grande cimitero medievale della pieve di Pava (Siena). 
La scoperta, appena pubblicata sulla rivista scientifica internazionale “The Lancet Oncology”, getta nuova luce sull’antichità dei tumori ossei e pone le basi per nuove ricerche nel campo della paleoncologia.
L’individuo, un giovane maschio di 25-35 anni, presentava in corrispondenza dell’osso frontale una rottura post mortale che ha permesso di osservare la presenza di una piccola neoformazione ovalare all’interno del seno frontale destro del cranio. Grazie all’ausilio di moderne tecniche radiologiche ed istologiche, gli studiosi sono riusciti a chiarire che la natura patologica della lesione era proprio un osteoblastoma.
“L’osteoblastoma è un raro tumore benigno dell'osso che rappresenta attualmente circa il 3,5% di tutti i tumori primitivi benigni dell'osso e l'1% di tutte le neoplasie ossee - afferma il professore Gino Fornaciari dell’Università di Pisa e coautore della pubblicazione – di solito colpisce prevalentemente i giovani adulti, prediligendo la colonna vertebrale e le ossa lunghe, la localizzazione nel cranio e nei seni paranasali è invece estremamente inconsueta e pochissimi sono i casi noti nella letteratura clinica moderna”. 
“E’ stato estremamente sorprendente essere riusciti a trovare testimonianza di questa condizione addirittura nei resti scheletri umani. Ad oggi infatti, il caso medievale di Pava risulta essere la prima attestazione paleopatologica di osteoblastoma del seno frontale, confermando l'esistenza di questo raro tumore osseo benigno a quasi 1000 anni fa” conclude la dottoressa Giulia Riccomi, dottoranda dell’Ateneo pisano e primo autore della pubblicazione.

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 Il 70% delle malformazioni neonatali potrebbero essere evitate con l'assunzione quotidiana di Acido folico durante la gravidanza e nei mesi che immediatamente la precedono. Una pratica poco diffusa in Italia che mette a rischio la vita di centinaia di bambini che in altri paesi del mondo e' stata contrastata con l'introduzione di alimenti fortificati. Il grido d'allarme lanciato dalla SIN, la Societa' Italiana di Neonatologia nei mesi scorsi e rimasto inascoltato ritorna attuale alla luce di uno studio pubblicato su Birth Defects Research realizzato dai ricercatori della Emory's Rollins School of Public Health, in Georgia.

Sono stati valutati i casi di difetti alla nascita in 71 paesi del mondo, tra cui l'Italia, in cui non vengono utilizzate farine di frumento fortificate e confrontati con gli 81 in cui, invece, vengono utilizzate. Introducendo sul mercato farina fortificata ogni anno si preverrebbero 57mila difetti alla nascita. "Oggi la prevenzione migliore e piu' efficace della spina bifida e degli altri gravi difetti del tubo neurale risulta essere la fortificazione con acido folico di alcuni alimenti di largo consumo come le farine o alcuni prodotti da forno" - afferma il Presidente della SIN Mauro Stronati - "Solo il 30% delle donne, infatti, attua la profilassi volontaria con acido folico, raccomandata dall'OMS nel periodo pre-concezionale, che non si e' comunque dimostrata sufficiente a ridurre l'incidenza di queste patologie. Con l'introduzione di alimenti fortificati, invece, come avvenuto in altri Paesi del mondo, si potrebbero prevenire fino al 70% delle malformazioni".
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Avrebbe un forte significato bandire anche in Italia il commercio totale dell’avorio


Il WWF accoglie con favore l’annuncio di Taiwan che intende vietare  il commercio dell’avorio nel paese a partire dal primo gennaio 2020. La decisione arriva dopo la svolta di tre fra i paesi maggiormente coinvolti nel mercato dell’avorio - Cina, Stati Uniti e Hong Kong – che hanno recentemente messo al bando avorio e derivati dai loro mercati nazionali. Anche il Regno Unito ha recentemente aderito agli sforzi per proteggere le popolazioni di elefanti africani.
"Siamo lieti di vedere i governi intensificare i loro sforzi per proteggere gli elefanti, letteralmente decimati negli ultimi anni a causa di un bracconaggio senza freni. Il WWF invita i governi di tutta l'Asia a seguire l’esempio di Cina, Hong Kong e Taiwan e a chiudere definitivamente il mercato legale di avorio e prodotti derivati”, dichiara  Margaret Kinnaird, dalla sede di Nairobi del WWF International.
In Cina il mercato legale dell'avorio è stato chiuso il 31dicembre 2017. Tutto il commercio nel paese è ora illegale, il che potrebbe spostare il commercio illegale verso quei paesi asiatici che possono contare sulla copertura dei commercianti legali rimasti. Ci sono prove che i mercati nazionali dell'avorio in Vietnam, Cambogia, Laos, Giappone e Birmania stanno fornendo ai visitatori prodotti provenienti dalla Cina, evidenziando la necessità di rafforzare gli sforzi oltre confine.

"Questo è il momento di aumentare i nostri sforzi per il contrasto alla criminalità che controlla il commercio illegale di natura, un giro d’affari milionario secondo solo a quello delle armi e della droga. È necessario che i governi e le forze di polizia intensifichino gli sforzi anche con iniziative transnazionali per perseguire i criminali che si arricchiscono con questi crimini di natura”, dice Isabella Pratesi, direttore Conservazione WWF Italia che conclude: “Per quanto l’Italia non sia un paese cruciale nel commercio dell’avorio avrebbe un forte significato bandire anche in Italia il commercio totale dell’avorio”. Circa 20.000 elefanti africani vengono uccisi annualmente, soprattutto a causa della domanda di avorio proveniente dall'Asia. Nell'ultimo decennio, le popolazioni di elefanti africani sono diminuite di oltre il 20%, toccando una quota di circa 415.000 esemplari stimati. La perdita di una specie chiave come l’elefante danneggerebbe l’intera salute degli ecosistemi, portando ad una perdita di biodiversità ancora maggiore con effetti devastanti sia sulla natura, sia sulle persone e il loro benessere.

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Venerdì, 06 Aprile 2018 07:13

Come capire il cervello guardando le api

Un team di ricerca dell’Università di Sheffield e dell’Istituto di scienze e tecnologie della cognizione (Istc) del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr) ha scoperto, grazie a un modello matematico, che le api reagiscono all’unisono agli stimoli ambientali analogamente ai neuroni cerebrali, rivelando dinamiche del comportamento umano. Lo studio pubblicato su Scientific Reports

 

Pensare alle api in una colonia come ai neuroni in un cervello può aiutare alla comprensione dei meccanismi alla base del comportamento umano. A rivelarlo uno studio dell’Università di Sheffield in collaborazione con l’Istituto di scienze e tecnologie della cognizione del Consiglio nazionale delle ricerche (Istc-Cnr), pubblicato su Scientific Reports. “Uno sciame di api può essere considerato un super-organismo composto da migliaia di insetti che rispondono all’unisono a stimoli esterni, come i neuroni del cervello reagiscono alle sollecitazioni che provengono dall’ambiente. Questa somiglianza permette di tracciare precise corrispondenze tra le interazioni tra api responsabili del comportamento del super-organismo e i meccanismi neurali alla base della cognizione, e quindi di identificare le micro interazioni alla base dei meccanismi generali del comportamento umano e non”, spiega Vito Trianni ricercatore dell’Istc-Cnr e coautore dello studio.

Il punto di partenza del lavoro è un modello matematico della sciamatura. “Le api decidono collettivamente il luogo dove costruire l’alveare e per raggiungere questo obiettivo fanno uso di segnali complessi che permettono di attrarre altre api verso nidi di qualità elevata o di inibire il reclutamento, per alternative di bassa qualità. Questi segnali sono simili a quelli trasmessi tra popolazioni di neuroni durante i processi decisionali tra più alternative”, continua il ricercatore.

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Venerdì, 06 Aprile 2018 06:09

Semaforo rosso al tumore cerebrale infantile

Uno studio targato Sapienza e Istituto Italiano di Tecnologia ha scoperto e dimostrato come mutazioni a carico di una proteina, che agisce come fattore inibitore di crescita per le cellule nervose, possano portare allo sviluppo del medulloblastoma. I risultati del lavoro sono pubblicati su Nature Communications

Il medulloblastoma è il tumore cerebrale più diffuso nell’infanzia. Le attuali terapie associano la chirurgia alla radio e alla chemioterapia ma, nonostante offrano buone probabilità di guarigione, non sono prive di effetti collaterali gravi come disturbi cognitivi permanenti. È per questo motivo che la ricerca di cure alternative innovative è fondamentale. Un recente studio, condotto da Lucia Di Marcotullio del Dipartimento di Medicina molecolare della Sapienza in collaborazione con Paola Infante del CLNS@Sapienza(Istituto Italiano di Tecnologia, IIT), ha portato alla scoperta di un nuovo meccanismo molecolare, la cui alterazione è responsabile dello sviluppo del medulloblastoma. I risultati del lavoro, che rappresenta uno snodo cruciale per lo sviluppo di nuove strategie terapeutiche, sono pubblicati sulla rivista internazionale Nature Communications. Il medulloblastoma è causato da alterazioni molecolari che determinano un comportamento anomalo delle proteine segnale coinvolte nella crescita e migrazione di cellule nervose. “Questa via di segnalazione, che prende il nome di via di Hedgehog (Hh) – spiega Di Marcotullio – sta ricevendo molta attenzione in campo oncologico perché in condizioni non controllate è responsabile dell’insorgenza di una vasta gamma di tumori, ponendosi dunque come importante bersaglio nelle terapie anticancro più efficaci e quindi con minore tossicità”.

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Ricercatori dell’Istituto per i processi chimico-fisici del Cnr di Messina hanno riprodotto, mediante avanzate tecniche numeriche, il processo chimico che potrebbe aver determinato la sintesi primordiale dell’eritrosio, precursore del ribosio, lo zucchero che compone l’RNA, facendo così luce sull'origine delle prime molecole biologiche e quindi sull’inizio della vita sulla Terra. I risultati sono stati pubblicati su Chemical Communications della Royal Society of Chemistry, in collaborazione con l’Accademia delle scienze della Repubblica Ceca di Brno e la Sorbona di Parigi

 

Uno dei tasselli cruciali nel puzzle dell’origine della vita è rappresentato dalla comparsa delle prime molecole biologiche sulla Terra come l’RNA, l’acido ribonucleico. Uno studio dell’Istituto per i processi chimico-fisici del Consiglio nazionale delle ricerche (Ipcf-Cnr) di Messina ha descritto, mediante avanzate tecniche di simulazione numerica, un processo chimico che da molecole semplici e presenti in enorme abbondanza nell’Universo, come l’acqua e la glicolaldeide, potrebbe aver portato alla sintesi primordiale dell’eritrosio, precursore diretto del ribosio, lo zucchero che compone l’RNA. Lo studio è stato pubblicato sulla rivista Chemical Communications, della Royal Society of Chemistry, da un team che coinvolge anche l’Accademia delle scienze della Repubblica Ceca di Brno e l’Università di Parigi Sorbonne.

“Nello studio dimostriamo per la prima volta che determinate condizioni prebiotiche, tipiche delle cosiddette ‘pozze primordiali’ in cui erano presenti le molecole inorganiche più semplici, sono in grado di favorire la formazione non solo degli aminoacidi, i mattoni fondamentali delle proteine, ma anche di alcuni zuccheri semplici come l’eritrosio, precursore delle molecole che compongono l’ossatura dell’RNA”, spiega Franz Saija, ricercatore Ipcf-Cnr e coautore del lavoro. “La sintesi degli zuccheri a partire da molecole più semplici, che possono essere state trasportate sul nostro pianeta da meteoriti in epoche primordiali, rappresenta una grossa sfida per gli scienziati che si occupano di chimica prebiotica. La formazione dei primi legami carbonio-carbonio da molecole molto semplici come la formaldeide non può avvenire senza la presenza di un agente esterno capace di catalizzare la reazione: la presenza di tali catalizzatori in ambienti prebiotici, tuttavia, è ancora un mistero”.

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Tropical forests have been called the lungs of the planet. They soak up vast quantities of carbon dioxide, hold the world's greatest diversity of plants and animals, and employ millions of people. And these hot ecosystems--often a patchwork of trees and grasslands--are being deeply altered by logging and other land use change. Now, a team of scientists have made a fundamental discovery about how fires on the edges of these forests control their shape and stability. Their study implies that when patches of tropical forest lose their natural shape it could contribute to the sudden, even catastrophic, transformation of that land from trees to grass. The new knowledge could help protect tropical forests--and allow land managers to build new tools to predict the stability of both individual forest patches and larger regional-scale forests.

The study was published March 26 in the journal Ecology Letters.

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Come si è originata la vita e come si trasmette da cellula madre a cellula figlia? Un nuovo tassello per la comprensione di questi meccanismi arriva da uno studio delle Università di Pisa, Bari e Salento che si è guadagnato la copertina della rivista scientifica “Integrative Biology” della American Chemical Society. Il gruppo di ricerca, coordinato dal professore Roberto Marangoni dell’Ateneo pisano e composto da Alessio Fanti, Leandro Gammuto, Fabio Mavelli e Pasquale Stano, ha simulato in laboratorio i processi di riproduzione grazie a delle “protocellule” che si usano per studiare alcune proprietà delle cellule biologiche vere.
“Tra i tanti problemi che concernono la comprensione di come si sia sviluppata la vita sulla terra, c’è anche il rapporto tra membrane cellulari e contenuto della cellula – racconta Roberto Marangoni - infatti, per assicurare un ambiente chimicamente stabile e governabile, le cellule hanno bisogno di una divisione tra il contenuto interno, l’insieme delle molecole necessarie alla vita, e l’ambiente esterno, e tale divisione è data dalla membrana cellulare”.
Uno dei punti fondamentali su cui si è interrogata la scienza è quindi se sia nato prima il contenuto cellulare o la membrana, in altre parole, una sorta di problema di problema “dell’uovo e della gallina” su scala microscopica. Una possibile soluzione a questo apparente paradosso è venuta circa dieci anni fa, quando gli scienziati hanno osservato il cosiddetto “supercrowding effect”.

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