Marzo 2022
 
 
 

La recente scoperta di antichi resti di DNA antico, presenti nei sedimenti lacustri al margine meridionale della calotta glaciale scandinava e attribuibili all'abete rosso, porta nuova luce sulle dinamiche di risposta delle foreste ai cambiamenti climatici del passato. Lo studio internazionale, coordinato dalla Sapienza, è stato pubblicato su Nature Communications
L'abete rosso è oggi la specie arborea più comune in Fennoscandia, la parte d'Europa che comprende la Finlandia e la penisola scandinava. Diversi studi, basati su ritrovamenti di polline fossile di abete in antichi sedimenti lacustri, hanno dimostrato che ci sono volute diverse migliaia di anni prima che questa specie giungesse in Svezia dopo l'ultima glaciazione e diventasse la specie dominante delle foreste scandinave. Secondo tali analisi l'abete sarebbe giunto in Svezia dal nord-est solo 2.000 anni fa. 

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I ricercatori Unipi hanno “annusato” le tracce dei composti organici residui


I ricercatori dell’Università di Pisa hanno investigato per la prima volta il contenuto di circa cinquanta vasi e anfore provenienti dalla tomba di Kha e Merit del Museo Egizio di Torino risalenti a circa 3500 anni fa. L’indagine è avvenuta senza aprire o intaccare i reperti grazie ad una innovativa metodologia che ha permesso di “annusare” le tracce dei composti organici residui. Nei preziosi contenitori in alabastro sono stati identificati resine e unguenti spesso insieme a cera d’api, uno dei materiali più rinvenuti perché usato sia come conservante sia come base per la preparazione di cosmetici. Nelle anfore i ricercatori hanno poi rintracciato pesci essiccati e molecole volatili la cui presenza potrebbe essere associata a farina d’orzo o addirittura birra come suggerito dalla presenza di composti volatili specifici della fermentazione dei cereali.

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Scoperto un nuovo possibile meccanismo per interferire con i coronavirus umani. È il risultato di uno studio appena pubblicato sulla prestigiosa rivista internazionale Antiviral Research. Coordinati dal Professor Marco De Andrea, CEO anche dello spin-off NoToVir, la Dr.ssa Selina Pasquero e gli altri ricercatori del laboratorio di Patogenesi delle Infezioni Virali, Dipartimento di Scienze della Sanità Pubblica e Pediatriche dell’Università di Torino, hanno scoperto un nuovo meccanismo associato alla replicazione di SARS-CoV-2 che apre nuove possibilità allo sviluppo di farmaci antivirali.

 L’infezione virale

 Una delle strategie escogitate dai virus per favorirne la replicazione nelle cellule consiste nel modificare le proteine cellulari dell'ospite, alterando così la loro localizzazione e la loro attività funzionale. Una di queste modifiche, nota per essere associata a malattie di tipo degenerativo, è la citrullinazione. Il processo di citrullinazione è stato descritto, e oggi utilizzato anche a scopo diagnostico, in diverse condizioni infiammatorie, come l'artrite reumatoide, il lupus eritematoso sistemico, il morbo di Alzheimer, la sclerosi multipla, l’aterosclerosi e in diverse forme di cancro. In uno studio pubblicato lo scorso anno, il gruppo del Prof. De Andrea aveva per la prima volta correlato la citrullinazione con le infezioni di virus erpetici a DNA.

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Giovedì, 31 Marzo 2022 10:09

Un idrogeno sempre più verde

 

Ricercatori dell’Istituto di chimica dei composti organometallici del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr-Iccom) in collaborazione con l’ETH di Zurigo, a partire da un complesso organometallico di rutenio, hanno realizzato una cella elettrolitica per la produzione di idrogeno verde dall’acqua. Le ricadute della ricerca riguardano sia la chimica fondamentale che nuove prospettive per la produzione sostenibile di idrogeno. I risultati dello studio sono stati pubblicati su Chemical Science

 Ricercatori dell’Istituto di chimica dei composti organometallici del Consiglio nazionale delle ricerche in collaborazione con l’ETH di Zurigo hanno scoperto che la produzione di idrogeno verde dall’acqua può essere promossa da singoli atomi di rutenio. I ricercatori hanno dimostrato per la prima volta che un complesso organometallico dinucleare di rutenio è un attivo catalizzatore per la generazione di idrogeno in una cella elettrolitica a membrana polimerica (PEM). L’apparato realizzato su piccola scala di laboratorio produce 28 litri di H2 (diidrogeno) per grammo di rutenio al minuto. In sette giorni di attività non si registrano fenomeni di degradazione del catalizzatore. Al momento l’efficienza non è paragonabile ad un sistema commerciale, ma rappresenta una proof of concept per una nuova classe di elettrolizzatori. La ricerca è stata recentemente pubblicata sulla rivista Chemical Science.

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Una cartiera dell’industria Sofidel sarà la prima in Europa ad emissioni zero, grazie a una tecnologia innovativa messa a punto da Andritz e Meva Energy con il supporto del team di ingegneri chimici e aerospaziali del Dipartimento di Ingegneria Civile e Industriale dell’Università di Pisa. A pieno regime, permetterà la riduzione di 8.500 ton di emissioni di CO2 annue. Il nuovo impianto è stato presentato a Tissue World di Miami, tra i più grandi eventi mondiali dell’industria della carta.


Un impianto di ultima generazione di gas rinnovabile (bio-syngas) prodotto attraverso una tecnologia innovativa alimenterà una cartiera del gruppo Sofidel a Kisa, in Svezia, rendendola così, entro il 2023, la prima industria cartaria alimentata ad emissioni zero tramite l’utilizzo di syngas.

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UAVIMALS, il prototipo aereo laser scanner di piccole dimensioni, utile per le indagini di archeologia leggera, è il frutto di una ricerca interdisciplinare tra archeologia e biorobotica, condotta dalla Sapienza e dalla Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa.


Si è concluso il progetto UAVIMALS, una ricerca interdisciplinare tra archeologia e biorobotica, condotta dalla Sapienza Università di Roma e dalla Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa e tesa alla realizzazione di un prototipo aereo laser scanner, di piccole dimensioni, utile per le indagini di archeologia leggera. Il progetto è stato sostenuto da un finanziamento della National Geographic Society ottenuto nel settembre del 2018, con un Early Carrer Grants (EC-50761T-18) da Federica Vacatello (project leader e PhD in Archeologia – curriculum di Archeologia ed Antichità post classiche - presso il Dipartimento di Scienze dell’antichità della Sapienza), che ha coadiuvato un gruppo di ricerca composto da archeologi, ingegneri e tecnici di bio-robotica.

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Rappresentazione schematica dell’inserzione dei peptiti di fusione della proteina spike in una membrana

 

Cosa succede quando il coronavirus SARS-CoV-2 infetta le cellule? La risposta arriva da una collaborazione tra l’Istituto officina dei materiali del Cnr, l’Istituto Laue Langevin di Grenoble, l'Università di Cambridge e l'Australian National Deuteration Facility. Nella ricerca, pubblicata in copertina dalla rivista Jacs, si descrive il meccanismo di fusione cellulare


Una ricerca internazionale che ha coinvolto l’Istituto officina dei materiali del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr-Iom), l’Istituto Laue Langevin (ILL) di Grenoble, l'Università di Cambridge e l'Australian National Deuteration Facility, ha rivelato il funzionamento del meccanismo critico di fusione con cui SARS-CoV-2 entra in contatto e infetta le cellule umane. In particolare, SARS-CoV-2, appartiene a una famiglia di virus a RNA conosciuti e chiamati β-coronavirus, che possono causare malattie respiratorie anche gravi e che sono altamente contagiosi.

“Nonostante faccia parte di una famiglia già nota di virus, però, non si era ancora compreso il meccanismo con cui SARS-CoV-2 infetta le cellule umane”, spiega Daniela Russo del Cnr-Iom. “In questo studio, pubblicato in copertina su Jacs, siamo stati in grado di riprodurre alcuni aspetti importanti per studiare il meccanismo di infezione, semplificando il sistema fino ai suoi elementi principali, che possono essere analizzati mediante la spettroscopia di diffusione di neutroni (scattering). Usando le possibilità offerte da questa metodica, si è potuto studiare nel dettaglio le interazioni tra la proteina virale e la membrana cellulare, analizzando gli effetti sulla struttura della membrana e la dinamica a scala molecolare di questa interazione a temperatura ambiente”.

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Uno studio del Centro di Ricerca ‘Aldo Ravelli’ dell’Università degli Studi di Milano e dell’Ospedale San Paolo, in collaborazione con l’Istituto Auxologico Italiano IRCCS, ha evidenziato che dopo un anno dal Covid sono ancora presenti disturbi cognitivi. La pubblicazione su European Journal of Neurology.

Una delle conseguenze da COVID-19, riscontrate a medio e lungo termine è quella che viene chiamata “nebbia cognitiva”, una sorta di rallentamento e stanchezza mentale, che colpisce le persone guarite che provano fatica nel fare le azioni del quotidiano come lavorare, guidare la macchina o fare la spesa. Questo il risultato di una ricerca appena pubblicata su European Journal of Neurology.
Lo studio, coordinato da Roberta Ferrucci, ha visto la collaborazione del Centro “Aldo Ravelli” del dipartimento di Scienze della Salute dell’Università degli Studi di Milano, dell’ASST Santi Paolo e Carlo e dell’istituto Auxologico Italiano IRCCS.

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Due studi italiani, condotti da un gruppo di ricercatori della Sapienza su pazienti con infezione da Sars Cov-2, identificano un mix di fattori per riconoscere i soggetti a maggior rischio di trombosi e le indicazioni per ottimizzare la terapia anti-coagulante
Nei pazienti COVID-19 una delle principali cause di mortalità è l’elevato rischio di trombosi, che può presentarsi sia nel distretto venoso in forma di trombosi venosa profonda o embolia polmonare, sia in quello arterioso in forma di infarto del miocardio o ictus. Circa il 20% dei pazienti COVID-19 può andare incontro a queste gravi complicanze durante il ricovero.

Purtroppo fino a ora le evidenze disponibili non hanno consentito di identificare con chiarezza i pazienti COVID-19 a rischio di trombosi né le indicazioni alla terapia anticoagulante per la prevenzione del rischio tromboembolico.

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L'Università di Pisa coordina il consorzio che sta lavorando al progetto Europeo Autocapsule, a fine anno i primi prototipi.

Dal 17 al 19 marzo si è riunito a Pisa il consorzio Europeo del progetto Autocapsule, coordinato dall'Università di Pisa nell'ambito del pilastro Excellent Science di Horizon 2020, e che vede come partners l’Università di Leeds, l’Università di Glasgow, IMEC e Quantavis.

Il progetto prevede la progettazione di una capsula sensorizzata, ad alto grado di autonomia, che potrà effettuare uno screening accurato dell’apparato digerente, e contrastare le molteplici malattie che interessano questo tratto.
"Entro fine anno - afferma Giuseppe Iannaccone, professore di elettronica al Dipartimento di Ingegneria dell'Informazione dell'Università di Pisa e coordinatore del progetto - verranno messi a punto i primi due dispositivi: una capsula impiantabile per il tratto gastrointestinale e una capsula endoscopica pilotata con manipolazione magnetica mediante un braccio robotico esterno.
"La combinazione di dispositivi mobili e impiantabili, di sensori sofisticati e delle tecniche di robotica medica - prosegue Iannaccone - ha potenzialità eccezionali per portare tecniche di diagnostica avanzata dall'ospedale all'ambulatorio, aumentando di gran lunga le capacità di screening".

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