Settembre 2018

Per la più frequente patologia muscolare ereditaria ancora non è disponibile una cura. Una nuova speranza arriva dall’Istituto di chimica biomolecolare del Cnr di Pozzuoli, dove si è scoperto che farmaci in grado di regolare la funzione degli endocannabinoidi permettono di contrastare il decorso della malattia e recuperare parte delle funzioni motorie perdute in un modello animale. Lo studio è pubblicato su Nature Communications

La distrofia muscolare di Duchenne è la più frequente patologia muscolare su base ereditaria. Ad esserne colpiti sono principalmente i bambini maschi. L’esordio è precoce e, oltre ai muscoli scheletrici, sono colpiti molti altri organi come cuore, polmoni e cervello. Ancora oggi contro tale patologia non è disponibile una cura. Una nuova speranza arriva dai laboratori di ricerca dell’Istituto di chimica biomolecolare del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr-Icb) di Pozzuoli guidati da Vincenzo Di Marzo, dove si è scoperto come in un modello animale sia possibile rallentare significativamente il decorso della malattia e recuperare le funzioni motorie perdute mediante i farmaci in grado di regolare la funzione dei cannabinoidi prodotti dal nostro stesso organismo. Lo studio è pubblicato su Nature Communications.

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A mummified human hand from ancient Egypt was CT scanned by researchers in Sweden to reveal unprecedented microscopic detail of soft tissues that are thousands of years old.

Using phase-contrast computed tomography (CT), KTH doctoral student Jenny Romell and her research colleagues scanned the hand of a mummy from the collection of the Museum of Mediterranean and Near Eastern Antiquities in Stockholm. The man had died around 400 BCE.

Romell says she set out to prove that phase-contrast CT – a technique typically used in biomedical research and material science – could be used to non-destructively image ancient soft tissues down to the cellular level.

“In paleopathology (the study of ancient diseases) researchers have long struggled to examine the soft tissues, since the imaging methods that are routinely used typically only work well for hard structures, like bone and teeth,” Romell says. “Diseases that leave traces in the soft tissues only often escape detection.”

The resolution of the final images was estimated at between 6 to 9 micrometers. Researchers were able to see the remains of adipose cells, blood vessels and nerves. They were even able to detect blood vessels in the nail bed and distinguish the different layers of the skin.

“With phase-contrast CT, ancient soft tissues can be imaged in a way that we have never seen before,” Romell said.
The idea for CT scanning mummies originated with Romell’s supervisor, Hans Hertz, professor at the Biomedical and X-ray lab at Applied Physics at KTH, who had begun a discussion on the subject a few years prior with Egyptology Professor Salima Ikram from the American University in Cairo, who co-authored the study.

“Even though conventional CT has been used to study mummies since its invention in the 70’s, phase-contrast imaging had never been tried in this context,” Romell says. “The idea was to produce images with better contrast and higher resolution, especially for the soft tissues of the ancient specimens.”

The results were published in the Radiological Society of North America journal.

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Il Politecnico di Milano partner del progetto europeo PROCHIP

È ormai evidente che le origini del cancro possono essere sia genetiche che epigenetiche, ovvero che il cancro è causato non solo da mutazioni della sequenza del DNA ma anche da mutazioni della sua struttura, costituita da strati di cromatina. Studi epigenetici, che analizzano i meccanismi responsabili di cambiamenti ereditabili nel genoma, hanno infatti dimostrato come il microambiente possa influenzare il comportamento cellulare provocando alterazioni nella struttura della cromatina all’interno del nucleo cellulare portando così alla trasformazione di cellule da sane a tumorali. Il progetto europeo PROCHIP (Chromatin organization PROfiling with high-throughput super-resolution microscopy on a CHIP), coordinato dal CNR e di cui il Politecnico di Milano è partner, si propone di sviluppare un innovativo microscopio in grado di analizzare un elevato numero di cellule tumorali e ottenere informazioni sulla distribuzione spaziale della cromatina, in modo da individuare un parametro da utilizzare come marker tumorale. La possibilità di osservare la distribuzione della cromatina aiuterà a decifrare l’eterogeneità di certe tipologie di cancro, ma anche a valutarne la risposta alle terapie e riuscire a sviluppare una medicina personalizzata per ogni specifico paziente.

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Lo studio condotto dai ricercatori della Yale School of Medicine e del Dipartimento di Biologia dell’Università di Pisa è stato pubblicato sulla rivista Nature Communications


Un team di scienziati della Yale School of Medicine e del Dipartimento di Biologia dell’Università di Pisa ha individuato una particolare popolazione di cellule staminali, dette neuroepiteliali, che si sono rivelate particolarmente efficaci nel riparare le lesioni al midollo spinale. La sperimentazione condotta su modelli animali ha mostrato che queste particolari cellule sono in grado di integrarsi nel tessuto danneggiato, estendere prolungamenti per alcuni centimetri dopo il trapianto e fornire un recupero motorio e funzionale. Inoltre, come hanno evidenziato i test di laboratorio, il recupero è proporzionale all’entità alla lesione: se ad esempio il danno al midollo spinale non supera il 25%, c’è un miglioramento significativo nell’uso degli arti inferiori entro due mesi.
“Per la prima volta, grazie a questo studio è stato quindi dimostrato che l’origine anatomica delle cellule staminali ha una importanza cruciale per il successo del trapianto”, spiega Marco Onorati, ricercatore dell’Unità di Biologia Cellulare e dello Sviluppo del Dipartimento di Biologia dell’Ateneo Pisano, e fra i primi autori dello studio pubblicato sulla rivista “Nature Communications”.

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Giovedì, 27 Settembre 2018 11:28

Skin is a battlefield for mutations



Normal skin contains a patchwork of mutated cells, yet very few go on to eventually form cancer and scientists have now uncovered the reason why. Researchers at the Wellcome Sanger Institute and MRC Cancer Unit, University of Cambridge genetically engineered mice to show that mutant cells in skin tissue compete with each other, with only the fittest surviving. The results, published today (27 September) in Cell Stem Cell suggest that normal skin in humans is more resilient to cancer than previously thought and can still function while a battle between mutated cells takes place in the tissue.

Non-melanoma skin cancer in humans includes two main types: basal cell skin cancer and squamous cell skin cancer, both of which develop in areas of the skin that have been exposed to the sun. Basal cell skin cancer is the most common type of skin cancer, whereas squamous cell skin cancer is generally faster growing. There are over 140,000 new cases of non-melanoma skin cancer each year in the UK*.

However, every person who has been exposed to sunlight carries many mutated cells in their skin, and only very few of these may develop into tumours. The reasons for this are not well understood.

For the first time, researchers have shown that mutated cells in the skin grow to form clones that compete against each other. Many mutant clones are lost from the tissue in this competition, which resembles the selection of species that occurs in evolution. Meanwhile, the skin tissue is resilient and functions normally while being taken over by competing mutant cells.

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La soluzione tecnologica più avanzata per monitorare gli ictus, conoscerli e prevenirli nasce da una collaborazione italo-lituana


Si chiama “BIOMEDICAL ELECTRONIC EQUIPMENT FOR POST-STROKE MONITORING” ed è stato sviluppato nel laboratorio di ricerca congiunto nato dalla collaborazione tra Fos Lituania - sede lituana del Gruppo Fos, azienda italiana leader nello sviluppo di soluzioni tecnologiche innovative - e KTU - Kauno Technologijos Universitetas, l’Università Tecnologica locale - in collaborazione con la Lithuanian Health Science University.
La soluzione consiste in due dispositivi, uno da indossare in testa (caschetto) e l’altro al polso (orologio), in grado di monitorare e di valutare - in modo continuo o ad intervalli di tempo - la circolazione del sangue cerebrale (sottosistema di testa di bio-impedenza) e le funzioni cardiache (sottosistema cardio pletismografico). Il primo fa uso di elettrodi di superficie per misurare l'impedenza complessa dei tessuti della testa. Il secondo utilizza sensori elettrocardiografici (ECG), fotopletismografici (PPG) per rilevare diversi parametri (impulsi, frequenza cardiaca, fibrillazione atriale). Entrambi i sottosistemi utilizzano segnali ECG per la sincronizzazione degli eventi.


L’obiettivo è dotare i medici di un dispositivo avanzato per il monitoraggio dei pazienti già colpiti da ictus, analizzarne le tendenze e prevenire possibili complicazioni, tra cui il rischio di un colpo secondario. L'ictus – che è una condizione medica causata da una improvvisa interruzione del flusso di sangue al cervello - secondo l'Organizzazione mondiale della sanità, colpisce ogni anno 15 milioni di persone. Di questi, 5 milioni muoiono e altri 5 milioni restano permanentemente disabili. Ad oggi, se un paziente ne mostra i sintomi, può essere sottoposto a diversi tipi di esami presso le strutture ospedaliere che, tendenzialmente, sono molto costosi (ad esempio, scanner per tomografia computerizzata - CT, imager a risonanza magnetica - MRI) oppure utilizzano radiazioni ad alta energia che, di conseguenza, non possono essere utilizzati per periodi prolungati.

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Uno studio sull’intero genoma di 3.514 individui provenienti da diverse regioni della Sardegna pubblicato su Nature Genetics conferma che i sardi, specie quelli delle regioni dell’interno, conservano meglio di qualunque altra popolazione contemporanea le caratteristiche genetiche delle popolazioni presenti nel continente Europeo >7000 anni fa. Tra le popolazioni contemporanee i sardi mostrano una maggiore somiglianza genetica con i baschi. Il DNA dei sardi è quindi una riserva di varianti genetiche antiche, attualmente molto rare altrove e fondamentali per lo studio di malattie con una base genetica

Un team di ricercatori guidati da Francesco Cucca, direttore dell’Istituto di ricerca genetica e biomedica del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr-Irgb) e professore di Genetica Medica dell’Università di Sassari, e da John Novembre professore presso il dipartimento di Genetica Umana della Università di Chicago, ha pubblicato uno studio in cui sono state esaminate le sequenze dell’intero genoma di 3.514 individui provenienti da diverse aree della Sardegna che fornisce nuove informazioni sull’antica storia genetica di questa popolazione e dell’intera Europa. La copertina di ottobre della rivista Nature Genetics sarà dedicata a questo lavoro, intitolato ‘Genomic history of the Sardinian population‘.
“Lo studio ha confermato un elevato grado di somiglianza genetica tra i campioni di DNA attuale e quello estratto da resti ossei provenienti da siti archeologici neolitici (tra 10.000 e 7.000 anni fa) e, in misura minore, pre-neolitici, dell’Europa continentale. E ha mostrato come queste similarità siano più marcate nelle aree storicamente più isolate dell’isola, quali l’Ogliastra e la Barbagia”, spiega Cucca. “Lo studio ha anche rivelato come i baschi siano la popolazione contemporanea con livelli più elevati di ascendenza condivisa con i Sardi. Tale similitudine, piuttosto che essere indicativa di contatti recenti tra queste popolazioni, suggerisce che entrambe si siano originate da popolazioni presenti in Europa nel Neolitico e Pre-neolitico. Studi sul DNA estratto da resti preistorici in Sardegna chiariranno il contributo relativo di queste componenti alla struttura genetica di queste popolazioni”.

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L’ENEA ha sviluppato un metodo biotecnologico per limitare la riproduzione della zanzara tigre e abbattere le sue capacità di trasmettere virus tropicali. Questo risultato è stato possibile grazie all’introduzione nella zanzara in laboratorio di ceppi specifici del batterio Wolbachia, innocuo per l’uomo e comunemente presente in gran parte degli insetti. Le femmine hanno manifestato un azzeramento della trasmissione del virus Zika e una riduzione a meno del 5% di quella dei virus di Dengue e Chikungunya, mentre i maschi sono stati in grado di rendere sterili le femmine selvatiche della specie dopo l’accoppiamento, compromettendone la possibilità di riprodursi.

Sperimentato in condizioni controllate contro popolazioni di zanzara tigre sia italiane che tropicali, il metodo biotecnologico dell’ENEA è volto a prevenire il rischio di epidemie associate a questi virus ed è stato testato nell’ambito del progetto europeo INFRAVEC 2 grazie alla collaborazione con il dipartimento di virologia dell’Istituto Pasteur di Parigi. I risultati sono stati pubblicati sulla rivista scientifica PLoS Neglected Tropical Diseases.

studio ENEA sulla zanzara tigre“La zanzara tigre, specie di origine asiatica segnalata per la prima volta in Italia nel 1990, è un vettore di diversi virus patogeni per l’uomo e la sua presenza nelle regioni mediterranee ci espone al rischio di trasmissione, come confermano le epidemie di Chikungunya in Emilia Romagna nel 2007, con oltre 200 casi di infezione nell’uomo, a cui solo l’anno scorso si sono aggiunti altri 300 casi tra Lazio e Calabria”, sottolinea il ricercatore ENEA Maurizio Calvitti della divisione “Biotecnologie e Agroindustria”. La malattia Chikungunya, che in lingua swahili significa “ciò che curva” o “contorce”, si manifesta dopo un periodo di incubazione di 2-12 giorni, con febbre e dolori articolari e muscolari spesso debilitanti e tali da limitare i movimenti dei pazienti, mal di testa, affaticamento e rash cutaneo che possono anche prolungarsi per alcune settimane[1].

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Un gruppo di ricerca guidato dai paleontologi del Dipartimento di Scienze della Terra e del Polo museale della Sapienza ha scoperto nei pressi della cittadina di Collepardo, in provincia di Frosinone, i primi fossili italiani di Agriotherium, un orso enorme vissuto nel Pliocene, più di 3 milioni di anni fa. Lo studio è pubblicato sulla rivista Italian Journal of Geosciences
Agriotherium, l’orso gigante “dal muso corto” (in inglese short-faced bear), viveva anche in Italia. A testimoniarlo sono i fossili di un esemplare di questo urside rinvenuti per la prima volta a Collepardo, in provincia di Frosinone. Gli autori del ritrovamento, tra cui anche Italo Biddittu, scopritore del famoso “cranio di Ceprano”, sono un gruppo di ricercatori del Dipartimento di Scienze della Terra e del Polo museale della Sapienza Università di Roma, in collaborazione con l’Istituto di Geologia ambientale e geoingegneria del Cnr e l’Istituto Italiano di Paleontologia Umana. Lo studio è stato pubblicato sulla rivista Italian Journal of Geosciences.

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Uno studio dell’Istituto di fisiologia clinica del Cnr, in collaborazione con la Fondazione toscana Gabriele Monasterio, analizza il profilo di sicurezza della metformina e del suo utilizzo nel diabete gestazionale. Il farmaco, che ha subìto un’espansione delle indicazioni d’uso, sembra non essere legato ad un aumento del tasso di anomalie congenite. Il lavoro pubblicato su British medical journal

L’Istituto di fisiologia clinica del Consiglio nazionale delle ricerche di Pisa (Cnr-Ifc), in collaborazione con la Fondazione toscana Gabriele Monasterio, ha fornito nuove prove sulla sicurezza legata all’uso della metformina nel diabete gestazionale durante il primo trimestre di gravidanza. Lo studio, recentemente pubblicato su British medical journal, ha analizzato un numero di donne in gravidanza esposte alla metformina 5 volte maggiore di quanto non fosse stato documentato prima in letteratura.
“Sono state osservate quasi 1,9 milioni di nascite in Europa, fra il 2006 e il 2013, utilizzando i dati di 11 registri di anomalie congenite di 9 nazioni europee. Nello specifico, sono stati rilevati 50.167 bambini affetti da anomalie congenite tra nati vivi, morti fetali e interruzioni di gravidanza a seguito di diagnosi prenatale di anomalie”, spiega Anna Pierini, ricercatrice del Cnr-Ifc. “Sui 50.167 casi analizzati abbiamo riscontrato 168 casi di anomalie congenite esposti a metformina, pari a 3,3 per 1.000 nati. Non è emersa alcuna evidenza di aumento del rischio per tutte le anomalie congenite maggiori a seguito dell’assunzione di metformina nel primo trimestre di gravidanza, per diabete o altre indicazioni”.
L’unico eccesso evidenziato è quello relativo all’atresia della valvola polmonare, un difetto cardiaco registrato in 3 casi esposti a metformina su 229 casi totali. “Tra i tre casi, una mamma aveva il diabete pregestazionale e altre due mamme avevano assunto induttori dell’ovulazione”, prosegue Pierini. “Nonostante la necessità di ulteriore sorveglianza per aumentare la dimensione del campione e per il follow-up del segnale cardiaco emerso dallo studio, questi risultati sono rassicuranti, considerando che l’uso di metformina in gravidanza risulta in aumento e che la presenza di diabete pregestazionale raddoppia il rischio di anomalie congenite”.

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