Gershwin è stato, per molti aspetti, la personificazione del sogno di tutti gli immigrati americani. La sua fama è stata il risultato di un duro lavoro e di una forte determinazione, combinate con un talento ed un entusiasmo illimitati. Gershwin fu, infatti, un lavoratore instancabile, dalla sua mente uscivano creazioni musicali a ripetizione, ed inoltre aveva anche un naturale fascino personale che lo portò ad avere contatti con molte persone brillanti che lo arricchirono e lo spronarono sempre.
A partire dai venticinque anni d’età egli fu un compositore di successo; il suo appartamento di New York era sempre affollatissimo di amici e di personalità emergenti, fra i maggiori artisti che si rivolsero a lui, e con cui egli collaborò, ci furono anche Fred Astaire e Jerome Kern.
La musica fu sempre la maggiore motivazione della sua vita, egli era sempre pronto ad accettare nuove sfide alla sua creatività tanto che una volta affermò che avrebbe avuto bisogno di vivere cent’anni per trascrivere tutta la musica che aveva in testa.
Ma il suo destino percorse tutt’altra strada.
George Gershwin - da http://it.wikipedia.org/wiki/George_Gershwin
Nel 1936 Gershwin ebbe una prima crisi depressiva assai strana. La vita che attiva e sociale che conduceva cominciò a stancarlo, addirittura espresse nei suoi confronti considerazioni di noia. Era un uomo solo, cominciò a pensare al matrimonio ma nessuna donna gli era vicina, una sera conobbe l’attrice Paulette Goddard e se ne innamorò, ma la donna era sposata con Charlie Chaplin e non volle lasciarlo per il compositore, che ci rimase malissimo, tanto da diventare introverso e musone, cosa molto strana per lui.
La sua depressione ebbe picchi altissimi, egli si lamentava continuamente di sentirsi “strano” e “triste”, ma i medici che lo visitavano non trovarono nulla in lui, solo un po’ di stress, e gli consigliavano di divagarsi e di riposare.
Gershwin parlava anche di un forte mal di testa che si accentuava nelle ore del mattino, una classica emicrania provocata dalla lesione intracranica che non sapeva di avere, il tumore che lo uccise.
Un giorno, mentre stava lavorando al suo quarto film, “The Goldwyn Follies”, egli non si presentò al teatro di posa: lo trovarono a casa, seduto sul suo letto con gli occhi sbarrati, senza avere alcuna idea di quanto tempo fosse rimasto così. A partire da quel momento la sua malattia divenne qualcosa di più serio, certo non più imputabile a semplici crolli nervosi o a malesseri d’origine psichica, ed anche se la lesione neurologica non era ancora del tutto evidente, un osservatore attento avrebbe notato i segni di una “bradifrenia” generalizzata, vale a dire un rallentamento delle funzioni psichiche e dei movimenti del corpo dovuti nel suo caso al tumore al cervello, ma purtroppo nessun medico fu così accorto con lui, e la malattia progredì senza più freno.
La diagnosi fu: “Isteria causata dalle pressioni e dalla artificiosità della vita di Hollywood” (in parole povere una sorta di stress).
Egli ebbe in poco tempo anche altre manifestazioni importanti: per ben due volte nel giro di poche settimane ci furono delle crisi epilettiche, in cui il compositore perse conoscenza, ed egli riferì che, entrambe le volte, egli aveva sentito, poco prima di svenire, un odore come di gomma bruciata, ma ancora nessuno seppe dare una valida spiegazione.
Siamo all’estate del 1937, Gershwin non era più lo stesso: si lamentava del mal di testa continuo ed era lento a capire quello che sentiva intorno a sé, quando guidava l’auto andava pericolosamente a zig zag nel traffico, ed i suoi amici si allarmarono tanto da farlo ricoverare subito in ospedale. Ma ancora una volta gli esami clinici che gli furono fatti non ebbero una risposta adeguata alle sue condizioni, e l’unico trattamento consigliato al musicista, una volta dimesso, fu di tipo psicanalitico, che non serviva a nulla.
La salute di Gershwin peggiorò rapidamente ed in modo allarmante. Pochi giorni dopo essere uscito dall’ospedale ebbe un tremendo collasso, rimase senza conoscenza e fu portato di corsa al Cedars of Lebanon Hospital di Los Angeles, dove arrivò in stato comatoso, con una paralisi al lato sinistro del corpo ed un grave papillodema agli occhi.
Dopo tanti ritardi, finalmente fu chiaro che il male di cui egli soffriva era grave, una malattia organica progressiva causata da un tumore maligno al cervello, e che tutti i disturbi che accusava non dipendevano affatto da stress e fatica.
Restava solo l’intervento. Il chirurgo Walter E. Dandy si occupò dell’operazione, e l’intervento fu immediato. Era il 10 Giugno 1937.
Dopo un radiogramma ventricolare per localizzare esattamente il tumore il quadro si presentò chiaro: il ventricolo destro era schiacciato ed il corno temporale destro era praticamente vuoto; la pressione endocranica era altissima, e tutto questo rivelava che il tumore era nella regione temporale destra con la formazione di un’ernia al cervello.
Quando fu aperto il cranio di Gershwin il chirurgo si trovò davanti ad una situazione tragica, assai peggiore di quanto si aspettava: il tumore era penetrato così in profondità da arrivare nella sostanza del cervello, e per tentare di asportarlo i medici impiegarono più di cinque ore.
L’anatomo patologo definì la massa “spongioblastoma multiforme”, un termine che equivale al moderno “astrocitoma maligno”, comunque un male senza alcuna possibilità di guarigione né miglioramento.
Gershwin non sopravvisse all’intervento, come sappiamo, e morì la mattina successiva verso le 10,30.
Tutto il paese sprofondò nel lutto per la sua morte inaspettata.
Forse se i primi segnali di questa terribile malattia fossero stati valutati più seriamente fin dall’inizio il compositore avrebbe potuto avere una migliore qualità della vita, o perlomeno una morte meno sofferta, ma essi furono troppo sottili per le conoscenze mediche del tempo – dei piccoli cambiamenti della personalità, dovuti all’irritazione cerebrale, non potevano bastare per diagnosticare un male di quella gravità – e per questo essi vennero quasi sempre liquidati come comportamenti nevrotici; anche la gran fama che aveva Gershwin in quegli anni fu un fattore che intimidì notevolmente i medici nel loro approccio con la malattia, ma, pensiamo, c’erano lo stesso troppo poche possibilità – forse nessuna - che la sua vita potesse essere salvata.
Marina Pinto