Una ragione valida

Emanuele Bucci 22 Apr 2009

in Fantascienzaonline

“Date all’uomo un perché e lui potrà superare qualsiasi come”. Ma basta, per favore! Basta con i luoghi comuni, con le frasi fatte. Sonia non ce la faceva davvero più. Eppure era quello il suo lavoro. Non ciò che era diventato, come le sarebbe piaciuto credere, ma ciò che era sempre stato. Tirar fuori dalla propria bocca, ogni giorno più vecchia, ogni giorno più stanca, un grande mare di banalità. Del resto, doveva interloquire con i suoi ascoltatori, tutti quelli che telefonavano erano gente comune, normale, e alla gente normale piace quando qualcuno parla per banalità. Gente normale. Ecco un altro luogo comune. Chiamavano in tanti, ognuno con problemi apparentemente diversi, eppure sempre con qualcosa in comune: non erano soddisfatti della loro vita. Così componevano il numero del programma di Sonia e si sfogavano. E lei rispondeva. La radio di Sonia, la voce del pomeriggio, il punto di riferimento per chissà quanti casi umani dell’intera regione.

Alcuni a volte erano davvero prolissi nell’esporre minuziosamente le rispettive frustrazioni. Approfittando di un relativo anonimato, potevano fare uscire tutto, da una scelta di carriera sbagliata a un’ennesima delusione amorosa fino all’ultima riunione di condominio. Cosa poteva fare Sonia per confortare persone del genere, se non affidarsi alla retorica e al già detto? I primi tempi si impegnava davvero, si appassionava ai problemi di ogni singolo individuo, cercava di fare in modo che quei pochi minuti di telefonata gli cambiassero la vita. E se sentiva di non aver dato il meglio, stava male per giorni, settimane, non dormiva la notte, arrivava a detestarsi. Ma adesso era tutto molto diverso. Una volta Sonia era convinta che esistessero persone, non certo felici, ma almeno serene, in pace con loro stesse, e soprattutto che anche l’essere umano più triste e abbattuto avesse la possibilità di migliorare le sue condizioni, di raggiungere quella serenità. Ma gli anni che aveva passato alla radio le avevano insegnato che niente di tutto questo era vero. Donne e uomini sono davvero tutti infelici, perché nascono con delle esigenze diverse che non riusciranno mai a soddisfare. Ci provano disperatamente, senza capire, o senza voler capire, che il malessere è intrinseco dentro di loro, indipendentemente dall’ambiente e dalle situazioni in cui si trovano.

Un disoccupato che non ha i soldi per mangiare è infelice quanto un miliardario che passa le giornate a divertirsi. Cercano tutti qualcosa di più. E più quella cosa è difficile da ottenere, più la desiderano. Per questo qualsiasi parola, anche la più affettuosa, anche la più sincera, avrebbe fatto ben poco per rendere felice qualcuno. Sì, forse sul momento si sarebbe accontentato, avrebbe risolto il problema più urgente e immediato, ma la soddisfazione sarebbe stata solo marginale. Ovviamente, tutto questo Sonia non poteva dirlo ai suoi ascoltatori, che erano già troppo depressi, esagitati, disperati, arrabbiati, angosciati. Ma non poteva neanche fingere ipocritamente di avere ancora la passione, l’entusiasmo e l’ottimismo degli inizi. Perciò aveva seguito l’esempio di quasi tutti gli altri dj radiofonici, affidandosi alla superficialità, ai discorsi manierati, simili a palazzi reali tanto sfarzosi e appariscenti all’esterno quanto vuoti e decadenti all’interno. Ogni tanto leggeva l’ennesimo saggio di psicologia di qualche affermato professore della mente umana e utilizzava le parti più incisive di  affabulazioni interminabili e auto celebrative per aiutarsi nelle sue battute. Quando se ne uscì con “Date all’uomo un perché…” stava toccando il fondo.

Certo, faceva parte della risposta all’ultimo ascoltatore della puntata, e dal tono di quello sembrava avesse gradito, ma Sonia era ugualmente esausta, e si vedeva. Fortunatamente, era finita, stop, almeno per quella giornata. Ora voleva soltanto tornare a casa e rilassarsi, per essere di nuovo pronta a un’altra serie di telefonate, richieste, problemi. Salutò fiaccamente i colleghi nella regia ed entrò un attimo nella toilette per darsi una sistemata prima di uscire. Si guardò allo specchio. Come si sentiva brutta. Ogni istante che passava, sempre più brutta. I capelli castani disordinati, privi di forma, qualche fastidiosa macchia di allergia sul viso, labbra secche e screpolate, occhi gonfi, stanchi, arrossati. Quando tentava di sorridere un paio di rughe si facevano sempre più difficili da nascondere dietro il trucco. Di certo si sarebbe data molto di più dei suoi trent’anni. Era pur vero che i complimenti maggiori non glieli facevano ormai per l’aspetto, bensì per la voce. Quanti aggettivi splendidi avevano usato per descrivere quella voce, che a detta di amiche e amici aveva reso speciale il programma. Sarà stato anche così, ma Sonia non si sentiva particolarmente lusingata. Non ricordava neppure il vero suono della sua voce. Se qualcuno l’avesse registrata, non l’avrebbe riconosciuta. Ricordava solo che non le piaceva. Mentre rimirava sé stessa in un misto di malinconia e rassegnazione, il suo pensiero più nitido era stranamente l’ultima risposta che aveva dato. Bastava davvero un perché? Una semplice ragione, per quanto sciocca o illusoria fosse, a tenere viva una persona, a darle la forza di tirare avanti in un’esistenza di asperità e delusioni? E lei… Lei, Sonia, aveva questo perché? Ne aveva avuti, e tanti effettivamente. Da bambina, vincere a nascondino con le cugine piccole. Crescendo, la scuola, l’amore. Ah, l’amore. Splendida e terribile arma a doppio taglio con la quale aveva sfidato e superato quel groviglio di ansie e sofferenze che gli antropologi chiamano adolescenza. E poi c’erano i suoi sogni. Professionali, certo. Ma se c’era una cosa che aveva imparato, è che più sei realizzata professionalmente più lo sei umanamente. Da questo non si scappa. Le sarebbe piaciuto fare la psicologa. Aveva iniziato a lavorare alla radio per pagarsi gli studi. Ma erano venuti fuori davvero troppi come, per un solo perché. E adesso? Cosa le restava adesso? Quale o quali perché? Mentre si avviava per la strada di casa, provò a scovarli nella realtà che la circondava. Cosa vedeva? Una città grigia, intorpidita, imprigionata in una cappa di inquinamento che ne offuscava l’identità e le aspirazioni. Un’umanità che non aveva il coraggio di impegnarsi per i problemi più grandi, ma sarebbe stata pronta a uccidersi per le peggiori futilità. C’era gente che si aggrediva e si picchiava per un’impercettibile ammaccatura sul cruscotto di una macchina, manifesti di politici che invece di annunciare le loro intenzioni preferivano insultare i loro avversari. Signori austeri quanto sempliciotti che additavano con chissà quale misterioso rancore giovani che non avevano mai visto prima, ma con una carnagione abbastanza diversa da meritare il loro disprezzo. Ragazze e ragazzi alla ricerca di un comune equilibrio nell’ultima puntata dell’ultimo reality televisivo o in un vestito di marca. Bastava il tragitto dalla radio a casa per far capire a Sonia che il suo attuale perché non era da ricercarsi nel contesto sociale in cui viveva. Né tanto meno negli affetti. Per lei non c’erano affetti. I suoi genitori erano morti quasi nello stesso anno lasciandole un’eredità di preoccupazioni e sentimenti mal espressi. Niente fratelli, niente sorelle, i cugini spariti si erano dimenticati di lei. Le sue amicizie più profonde si riducevano a poco più che quattro risate fra colleghi.


Affidarsi agli altri era sempre stato troppo facile, e pagava ben poco. Doveva trovare le risorse necessarie in se stessa, nel suo essere, nella sua interiorità. Ma cosa rispecchiava meglio la personalità di Sonia, il suo modo di vivere, del suo appartamento? Una piccola fiera di oggetti alcuni senza posto, altri senza scopo, molti dei quali non aveva più voglia di usare ma non si sarebbe mai sognata di buttare. Scaffali polverosi ricolmi di libri, videocassette, cd, dvd. Sonia poteva associare a ognuno di quegli oggetti disposti in maniera confusa e disordinata un preciso ricordo, un’immagine. Ma tutte quelle immagini insieme non componevano alcun disegno coerente, nessuna figura che li potesse racchiudere tutti. Nessuna che avesse un senso. Un tavolino di legno traboccava di fogli di conti da pagare, vestiti e biancheria intima buttata lì dove capitava. Il pavimento era lo stesso, le mattonelle piccole e di un colore che incuteva a Sonia una lieve tristezza. E poi c’era il letto. Quel letto morbido, delizioso, fragrante, sul quale si stese appena arrivata. Riposarsi, dormire, sognare. Era questo il suo perché? No, certo. Al massimo poteva esserlo di una giornata, ma figuriamoci di un’intera vita. Scivolare dentro le lenzuola, abbandonarsi al loro tocco delicato, al loro rassicurante abbraccio, era un conforto piacevole ma momentaneo. Come le sue parole alla radio per chi le ascoltava. Solamente una vaga, passeggera sensazione di sollievo. C’erano stati dei momenti in cui Sonia aveva condiviso quelle stesse lenzuola con qualcuno che credeva di amare, nei quali aveva avuto l’illusione di poter stabilire un legame con un’altra anima, e trovare così una vera pace per la propria. Una sensazione temporanea, anche questa. Molto temporanea, come le sue relazioni. Del resto, cos’era l’intimità fisica, se non l’ennesimo e più emblematico tentativo di entrare in contatto con l’altro, comprenderlo, e attraverso di lui, comprendere se stessi? E più l’aspettativa nasceva grande, più il tentativo si rivelava vano. Non c’era un solo aspetto dell’esistenza di Sonia che non le apparisse insensato, ristagnante.


Quasi facendo violenza a sé stessa, si alzò dal letto e si recò in cucina per prepararsi una simbolica e abborracciata cena. Nel frattempo accese la televisione, soprattutto per tenersi compagnia, non certo per interesse verso ciò che veniva trasmesso. I programmi quella sera erano davvero più idioti e inutili del solito, e questo finì con l’irritare Sonia, che mentre masticava svogliatamente un piatto di lasagne surgelate avrebbe gradito una sia pur vaga distrazione dalle sue cupe meditazioni. Girò i canali inutilmente. Nell’ultimo che vide prima di spegnere c’era uno di quei programmi scientifici dove sedicenti esperti proponevano teorie strampalate ben oltre i limiti del paranormale e della credibilità. Fu la goccia che fece traboccare il vaso. Sonia se ne andò sbuffando dalla cucina senza  neanche finire le lasagne e si rigettò a capofitto sul letto. Fra le profondità del buio della sua stanza c’era qualcosa di stranamente rassicurante, e al tempo stesso ineluttabile, definitivo. Era la fine di una giornata, ma poteva essere anche la fine di qualcos’altro. Di una vita? Chissà. Prima che la stanchezza le imponesse di chiudere gli occhi annebbiandole il corpo e la mente, Sonia pensò che malgrado tutto non ci era riuscita. Non aveva trovato un perché. Semplicemente, non c’era alcuna ragione perché una vita mediocre e insoddisfacente come la sua proseguisse oltre.


Fu l’improvviso e sgradevolmente acuto squillo del cellulare a svegliare Sonia. Ma saranno state le tre del mattino. Chi poteva essere? Sul momento Sonia non ci pensò, troppo addormentata per essere completamente sveglia, ma ormai troppo sveglia per riaddormentarsi. Rispose letteralmente per istinto. Tanto tempo passato a ricevere le chiamate degli ascoltatori le fece passare inosservate le insolite circostanze di quella situazione. Avvicinò a sé il cellulare senza neanche guardare il numero e iniziò a parlare.
“Pronto?”
“Una ragione. Ho bisogno di una ragione valida.”
La voce dall’altra parte era quella di una donna. Sembrava allo stesso tempo ferma e disperata, fragile e determinata. Qualcosa in quella voce colpì Sonia e la ridestò completamente dal suo torpore. Si rese conto della stranezza di ciò che stava accadendo e rispose con tono perplesso, quasi aggressivo.
“Ma chi è lei? Cosa vuole a quest’ora?”
“Non ti ho chiamata per perdere tempo! Il credito finirà fra poco.”
“Il credito? Oh, insomma, lei è pazza, che diavolo…”
“Sto per buttarmi.”
Sonia si bloccò per un attimo. In un altro frangente non avrebbe preso sul serio ciò che gridava la donna al telefono. Ma qualcosa nel suo tono le dava la certezza che si trattava della verità, nessuno scherzo. Quella persona stava davvero per buttarsi. Forse, dopo tutti quegli anni passati alla radio, Sonia era davvero in grado di leggere le intenzioni, il cuore di una persona solamente ascoltandone la voce. Riprese cercando di adottare un’inclinazione che fosse tranquillizzante ma incisiva.
“Dove si trova?”
“Sul tetto di un palazzo. E’ molto alto, il più alto che sono riuscita a trovare. Se guardo giù vedo… vedo… Oddio, aiutami! Ho bisogno di te. Questo non è neanche il mio cellulare… Non so chi sei, ho spinto il primo numero a caso.”
Ci fu una breve pausa. Prima che Sonia potesse replicare, l’altra donna riprese.
“Ho il coraggio di farlo, sì ce l’ho, ma…. Prima volevo sapere se… se era vero… se qualcuno in questo cazzo di mondo ha una ragione valida per continuare a vivere! Perché se c’è, allora forse esiste un senso… Non è tutto così assurdo, il problema sono io… Sono io che non trovo una ragione valida per vivere. Tu ce l’hai una ragione valida per vivere?”
“Io…”


La risposta era no, ovviamente. Ma in quel momento Sonia si sentiva come con il suo primo ascoltatore alla radio. Sentiva di avere in mano la vita di una persona, e in questo caso era vero. Sarebbero davvero bastate le sue parole a salvarla. Ma anche un accento sbagliato avrebbe potuto rovinare tutto, distruggere irreparabilmente un’esistenza. Questa volta doveva, e voleva, rispondere sinceramente, perché alla gente davvero disperata le bugie e le mezze rivelazioni non bastano. Doveva sforzarsi di trovare una risposta positiva per la donna. Ma poco prima non era riuscita a trovarla per se stessa. Si concentrò, cerco di sentirsi come al momento culminante di una puntata alla radio.
“Ascolta… Forse non c’è una ragione valida per vivere, o forse in questo momento non la senti… Ma non c’è nessuna ragione per morire. Non c’è niente per cui valga la pena morire.”


“Oh, anch’io lo credevo fino a ieri, sai? Avevo una vita di merda, ma continuavo a tirare avanti come un automa, era tutto così squallido e niente mi avrebbe mai spinta a fare cose assurde come buttarmi da un tetto… Ma da oggi è cambiato tutto! Ho ricevuto un dannato pacco, appena arrivata al lavoro. Lo sapevo che il pacco avrebbe portato male. Infatti poi sono successe le cose più terribili!”
“Cosa? Cosa ti è successo?”


“E’ troppo lungo da raccontare. Coincidenze. Cose che normalmente non accadono e che potrebbero accadere, tutte in un giorno. Ma non è questo il punto! Il punto è che, se avessi avuto una ragione valida, avrei avuto la forza di continuare a vivere, anche dopo tutte queste coincidenze. Ecco perché voglio farla finita! Che senso ha superare tutto questo? Non ha senso!”
Sonia stava perdendo il controllo della situazione. Alla radio non le era mai successo, non aveva mai avuto a che fare con il più autentico e genuino desiderio di morire. Cominciò a smettere di misurare i termini e si mise a parlare nella maniera più naturale e viscerale possibile, quasi senza rendersi conto di ciò che diceva.
“Ascolta, ascolta… Se davvero non hai niente o nessuno a cui tieni, che ti possano dare un motivo per continuare a vivere… Nessun amore, nessuna speranza… Prova a pensare che almeno una persona c’è!”
“Una persona?”


“Una persona come te. Con i tuoi stessi problemi, i tuoi stessi pensieri. E’ un mondo enorme, e ti assicuro che c’è un’anima che in questo momento prova la tua stessa disperazione, il tuo stesso dolore, la tua stessa… infelicità. Non sono in grado di dirti dove, ma c’è. E tu… Tu, per questa anima… Non pensi di dover tirare avanti anche solo per questa anima? Lei resiste con la tua stessa difficoltà. Se ti uccidi, penserà che è tutto inutile, perché qualcuno identico a lei ha preferito fuggire, piuttosto che andare avanti! Ucciderai anche lei! E’ questo che vuoi? Tu vivi per dare la forza a un’altra vita! Non ti sembra una ragione valida?”
Sonia restò sorpresa dalle sue stesse affermazioni. Razionalmente, non aveva mai pensato niente del genere. Era qualcosa nascosto nei meandri del suo inconscio, un’idea che aveva liberato ora in tutta la sua autenticità. Mentre la donna dall’altra parte taceva, Sonia pregò solo che fosse servito a qualcosa. Trascorsero attimi lunghi come secoli, in cui Sonia sentiva che in gioco ci fosse non solo il senso e il futuro dell’esistenza di quella donna, ma anche della sua.
La donna parlò con un filo di voce:
“Non… non è abbastanza. Mi dispiace.”


Per un istante tutto sembrò fermarsi. Poi Sonia udì qualcosa di simile a un sussulto, un lungo gemito. Silenzio e vuoto. Poi uno schiocco, secco, raggelante. La comunicazione si era interrotta. Sonia sentì come se un debole filo all’interno del suo cuore si fosse spezzato. Il cellulare le cadde dalla mano tremante, rompendosi. Lei rimase seduta sul letto sconvolta, sotto shock. Cominciò a piangere. Le lacrime sgorgavano a fiotti, mentre Sonia teneva la testa basta. Non ce la faceva a guardare avanti. Aveva fallito. La posta in gioco più importante della sua vita, e lei aveva fallito. Sonia non riusciva ad allontanare da sé l’immagine prepotente e atroce di quella donna, di cui conosceva soltanto la voce, che cadeva, cadeva, fino a schiantarsi contro il freddo asfalto. Aveva chiamato Sonia per ricevere un conforto, ma lei non era stata in grado di darglielo. Mentre sbatteva furiosamente i pugni contro il letto, e poi contro il pavimento, e contro il muro, Sonia non provava solo senso di colpa, ma anche orrore, orrore per tutte le volte che aveva pensato, anche solo come astrazione, a fare ciò che aveva fatto quella donna. Ora non le importava più quanto potesse fare schifo la sua vita. Avrebbe preferito soffrire le pene dell’inferno, piuttosto che fare la fine di quella povera donna. Morire in quel modo. No, no, per favore no. Passarono alcune ore, finché Sonia, sdraiata sul pavimento, si lasciò vincere dal sonno, dal desiderio di mettere per un attimo da parte quell’esperienza terrificante, quasi fosse stata tutta un sogno.
Si svegliò raffreddata e confusa. Quando fu finalmente in grado di distinguere i ricordi onirici da quelli reali, cominciò ad agire con maggior concretezza possibile per non cadere nuovamente nella trappola dell’emotività. Il cellulare era irrecuperabile, non c’era speranza di rintracciare la chiamata. Sonia ignorava come una donna sconosciuta avesse potuto accedere al suo numero. Forse aveva spinto i tasti alla rinfusa e per puro caso era capitata lei. Sì, probabilmente era stato così. Accese radio, telegiornali, girò i canali. Niente. Nessuno riportava la notizia del suicidio di una donna. Dall’accento che aveva, doveva essere della stessa regione di Sonia, ma nessun notiziario locale ne faceva accenno. Si sedette davanti al pc, consultò i siti web di tutte le principali agenzie di informazione, passò l’intera mattinata a cercare, cercare e cercare una qualsiasi traccia di quella donna. Inutilmente. Come era possibile? Una persona si suicidava una notte, e il giorno dopo nessuno riportava l’annuncio? Cos’era, semplice cinismo? Un morto in più, uno in meno… O forse, forse… Sonia aveva avuto torto, era stato tutto uno scherzo, una presa in giro? Poteva anche essere, eppure le sembrava così assurdo, così inverosimile. Sonia non pensò ad altro fino al pomeriggio, quando tornò alla radio. Dalla notte prima qualcosa era cambiato in Sonia. Vedeva ancora i problemi e gli aspetti negativi dentro di sé e nel mondo attorno a lei. Eppure avvertiva una maggiore energia, un desiderio di affrontarli, che prima non aveva. In parte era per ciò che aveva detto alla donna. Quell’altra anima, forse, esisteva davvero. Ma più di ogni altra cosa, l’essere stata testimone di un suicidio le aveva messo addosso una voglia di vivere che non aveva mai avuto prima di allora. Arrivata alla radio con un certo anticipo, andò a prendersi un caffé al distributore, dove incontrò Lia, una di quelle persone con cui era piacevole parlare e scambiarsi opinioni, battute, considerazioni. Ma ora Sonia si rendeva conto che Lia era qualcosa di più. Lia era una sua amica. Mentre facevano la fila al distributore, Lia notò che c’era qualcosa di diverso nello sguardo di Sonia.
“Tutto bene, Sonia, voce del pomeriggio?”


“Dai, non chiamarmi così. Uff, sono stravolta.”
“Che ti è successo?”
“E’ un storia talmente lunga. Forse è stato tutto un sogno, chissà…”
“Io ieri sera ho fatto mezzanotte. Sai, per guardare quel programma scientifico sul terzo. Tu lo hai visto?”
“Oh, non me ne parlare! Che stupidaggine. Ho subito spento la tv.”
“No, era interessante, invece! C’era un esperto, uno scienziato, che parlava di un fenomeno… Non mi viene il nome, è un termine strano… In pratica, c’è la possibilità che, attraverso un sistema di satelliti, una persona che telefona con il cellulare possa chiamare non solo attraverso lo spazio, ma anche attraverso il tempo!”
“Attraverso il tempo?”


“Sì. Nel senso che, se io oggi chiamassi il cellulare di una persona, quella mi risponderebbe da ieri, o dall’altro ieri. Si potrebbero fare telefonate dirette nel passato. Forte, vero?”
Sonia rifletté per un attimo. E se… Ma no, cosa andava a pensare! Eppure, se una cosa del genere fosse successa a lei? Ecco perché nessuno riportava la notizia del suicidio di quella donna. Doveva ancora accadere. L’aveva chiamata… dal futuro.
“Sonia? E’ il tuo turno.”
Sonia rimase un attimo sbalordita e si avvicinò al distributore. Selezionò la sua bevanda con il cervello ancora rivolto verso l’ipotesi di poco fa. Un’ipotesi che stava cominciando a diventare certezza. Mentre sorseggiava il caffé, Lia guardò l’orologio ed ebbe un fremito di agitazione, essendosi resa conto che stava facendo tardi. Si avvicinò un attimo a Sonia.
“Ah, Sonia, scusami, volevo chiederti un favore. So che hai la pausa fra le quattro e le cinque. Non potresti andare un attimo a farmi la ricarica per il cellulare?”
“Sì, certo ma… Ecco, mi si è rotto il cellulare ieri notte. Non ho il tuo numero.”
“Nessun problema, ecco, tieni!”


Senza che Sonia avesse il tempo di rispondere, Lia le dette in mano il suo cellulare.
“Il numero è memorizzato nella rubrica. Tienilo pure, per oggi, tanto lavoro fino a stanotte. Basta che me lo ridai domani, con il credito, mi raccomando! Grazie, Sonia, sei un’amica!” E si allontanò via correndo.
Era accaduto tutto talmente in fretta che Sonia quasi non si era accorta di un dettaglio. Ora non aveva più il suo cellulare, ma quello di un’altra persona. Un’idea inquietante la colpì nel profondo come un fulmine a ciel sereno. Chi era la donna che aveva telefonato (o che avrebbe telefonato)?
Mentre camminava con passo lento e vagamente disorientato per il lungo corridoio che conduceva alla cabina della regia, sentì una voce dietro di lei.
“Ehi, Sonia, è arrivato un pacco per te!”
Sonia si voltò incredula.
“Un… pacco?!”
“Sì, l’hanno consegnato stamattina. Sarà stato un tuo ammiratore, eh! Comunque è bruttissimo, tutto nero! Per me porta sfortuna.”
Sonia restò pietrificata. Ora aveva capito. Aveva capito tutto. Ma non solo. Adesso lei sapeva cosa sarebbe successo. Come sarebbe finita la sua giornata. Ma saperlo avrebbe cambiato qualcosa? E soprattutto, lei come avrebbe reagito? L’esperienza di quella notte era riuscita a darle un perché, una ragione valida. Ma sarebbe stata abbastanza valida?

 

Emanuele Bucci

Ultima modifica il Mercoledì, 09 Settembre 2009 10:26
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