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Lunedì, 18 Giugno 2018

 

 

Physical activity plays an important part in dementia prevention. In order to identify risk factors for this neurological disease more effectively, scientists will increasingly focus on big data and genetic research, experts reported at the Congress of the European Academy of Neurology in Lisbon. The question of whether physical activity can prevent dementia and if so, how, is a research question of particular interest. “Today we know that being in good physical condition also ensures a healthy brain. In addition, observational studies suggest that individuals who are physically active also have a better cognitive status,” Prof Ana Isabel Verdelho (Lisbon) told the 4th Congress of the European Academy of Neurology (EAN) in Lisbon.

The neurologist is conducting a study that is investigating whether physical activity can actually prevent cognitive damage caused by circulatory disorders of the brain. “The search for suitable study participants is proving difficult. If individuals who have been physically active throughout their life do not develop dementia, you cannot necessarily conclude that physical activity is the reason. These persons may have taken other good decisions as well, for example, a healthy diet or regular checks for vascular risk factors.” The study that now is going on compares subjects that all have in common signs of a vascular disease of the brain. Participants are randomized in two groups, one with supervised physical activity, and the other without supervised physical activity. The aim is to ascertain if physical activity is specifically associated with better cognitive outcomes.

Pubblicato in Scienceonline

 

La proteina APOA-1Milano, conosciuta per la sua azione protettiva contro l’aterosclerosi, è più efficace se somministrata tramite via orale in un “latte di riso terapeutico”, in quanto consente di ottenere un effetto terapeutico anche a concentrazioni molto basse. Questo perché le piante di riso geneticamente modificate possono essere utilizzate come bioreattori, ovvero come sintetizzatori o produttori di farmaco nel veicolo di somministrazione, il latte di riso, sicuro e non tossico. Inoltre, l’APOA-1Milano mantiene le sue proprietà protettive e anti-infiammatorie non solo nel sistema vascolare (arterie come aorta, coronarie e carotidi), ma anche in altri distretti dell’organismo come il fegato.

A rivelarlo è lo studio “APOA-1Milano muteins, orally delivered via genetically modified rice, show anti-atherogenic and anti-inflammatory properties in vitro and in Apoe−/− atherosclerotic mice” (Doi: 10.1016/j.ijcard.2018.04.029), condotto da un gruppo di ricerca del Dipartimento di Medicina e chirurgia dell’Università di Milano-Bicocca coordinato da Roberto Giovannoni, ricercatore di Patologia generale e immunologia, e appena pubblicato sulla rivista International Journal of Cardiology. I risultati sono stati inoltre presentati ieri al XVIII International Symposium on Artheriosclerosis di Toronto.

Nonostante l’alto potenziale terapeutico dell’APOA-1Milano, nessuno dei  farmaci sviluppati in passato e basati su questa proteina è mai arrivato a disposizione dei pazienti a causa della bassa efficienza dei processi di purificazione della stessa. L’azienda biotecnologica svizzera GRG Gene Technology SA ha identificato e brevettato un sistema di sintesi e somministrazione della proteina tramite piante di riso geneticamente modificate e ha incaricato l’equipe di Giovannoni di valutarne il potenziale terapeutico.

Pubblicato in Medicina

 


Uno studio indipendente, finanziato dall’AIFA e coordinato dai ricercatori del Dipartimento di Medicina clinica della Sapienza, in collaborazione con le università di Bologna e Padova, ha dimostrato l’efficacia di una terapia innovativa basata sull’utilizzo di albumina umana. I risultati sono pubblicati sulla rivista The Lancet
Uno studio, coordinato dai ricercatori del Dipartimento di Medicina clinica della Sapienza in collaborazione con le università di Bologna e Padova, ha dimostrato l’efficacia di una terapia innovativa basata sull’utilizzo di albumina umana su pazienti con cirrosi epatica scompensata. La ricerca è pubblicato sulla rivista internazionale The Lancet.

Il team di ricercatori ha condotto per 10 anni uno studio controllato randomizzato in 33 centri epatologici italiani su 431 pazienti affetti da cirrosi epatica in fase di scompenso ascitico.
Il gruppo di pazienti di controllo ha continuato il trattamento con terapia diuretica standard, mentre, per il gruppo sperimentale, la terapia standard è stata incrementata con una infusione endovenosa settimanale di 40 grammi di albumina umana. Lo studio si proponeva di determinare se la somministrazione a lungo termine di albumina fosse in grado di influenzare il trattamento dell’ascite, l’incidenza di complicanze e la mortalità di pazienti affetti da cirrosi scompensata.
Nel gruppo trattato con albumina è stata osservata una riduzione del rischio di mortalità a 18 mesi di circa il 40% (HR= 0.62; C.I.=0.40-0.95), oltre a una riduzione significativa dei problemi fisiologici legati all’ascite (la principale complicanza legata alla cirrosi), come la refrattarietà, l’insufficienza renale e l’encefalopatia epatica grave.

Pubblicato in Medicina

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