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Venerdì, 03 Maggio 2019
Un nuovo studio pubblicato su Nature mostra che il contributo al rilascio di CO2 profonda nelle zone di avanarco - una delle zone intorno gli archi vulcanici - è maggiore di quanto si pensasse e che i microorganismi estremofili che vivono nel sottosuolo contribuiscono, assieme alla precipitazione di calcite, a rimuovere fino al 94% del flusso di CO2 in questa zona, con conseguenze su geologia e clima. I risultati ottenuti da un team di ricerca del Cnr-Irbim e Università Federico II di Napoli Possono i microbi presenti in ambiente influenzare processi geologici su grande scala? Apparentemente si. Un nuovo studio, pubblicato su Nature, mostra che i microorganismi presenti nel sottosuolo sono direttamente o indirettamente responsabili del sequestro di grandi quantità di CO2 proveniente dal riciclo della crosta terrestre in zone di subduzione. Lo studio ha visto impegnate 27 istituzioni di sei paesi: tra i coautori e responsabili scientifici del progetto Donato Giovannelli, ricercatore presso l'Università degli Studi di Napoli Federico II ed associato presso l'Istituto per le risorse biologiche e le biotecnologie marine di Ancona (Cnr-Irbim); nel team anche Elena Manini e Francesco Smedile del Cnr-Irbim di Ancona e Messina. Il progetto è finanziato dal consorzio internazionale Deep Carbon Observatory, primo autore Peter Barry del Wood Hole Oceanographic Institution (Usa), tra gli altri autori Maarten de Moor dell'Osservatorio Vulcanologico della Costa Rica (Ovsicori), Karen Lloyd dell'Università del Tennessee a Knoxville e Francesco Regoli dell’Università Politecnica delle Marche.
Pubblicato in Medicina
Un team di ricercatori del Dipartimento di Scienze biochimiche A. Rossi Fanelli ha definito per la prima volta la variazione dell’alternanza luce/buio come fattore scatenante di risposte immunitarie incontrollate, alla base di molte malattie autoimmuni come la sclerosi multipla. Lo studio, che apre nuove prospettive cliniche, è pubblicato sulla rivista Amino Acids Numerosi studi epidemiologici hanno dimostrato l’esistenza di singolari variazioni nella distribuzione geografica della prevalenza della sclerosi multipla (SM): è ormai accertato che all’aumentare della latitudine aumenti anche la prevalenza di questa malattia autoimmune. Tuttavia, la causa scatenante di tale disomogeneità fino a oggi è rimasta sconosciuta. Il nuovo studio, coordinato da Enzo Agostinelli del Dipartimento di Scienze biochimiche A. Rossi Fanelli, identifica nell’orologio circadiano il principale fattore coinvolto e propone un modello eziologico della malattia (che considera cioè anche le cause) coerente sia con questo fattore geografico, sia con altri parametri quali le variazioni etniche, di sesso o dello stile di vita. I risultati della ricerca sono stati pubblicati sulla rivista Amino Acids della Springer-Verlag GmbH. “L’assunto fondamentale, che ha portato allo sviluppo del nuovo paradigma, – spiega Enzo Agostinelli – è che aumentando la latitudine, la continua e crescente diversità dell’alternanza luce-buio delle giornate desincronizzi gli orologi circadiani centrali e periferici. Tale alterazione a sua volta può compromettere il sistema immunitario dell'organismo, innescando l'autoimmunità e, con essa, la sclerosi multipla”. La principale caratteristica degli orologi circadiani è la capacità di rispondere e sincronizzarsi con stimoli ambientali esterni, detti “zeitgebers” (dal tedesco, zeit = tempo, geber = che dà), primo fra tutti la luce e dunque l’alternanza luce-buio, ma anche la temperatura, il cibo e alcuni segnali sociali come variazioni del ritmo sonno-veglia (jet-lag, ora legale, lavoro notturno).
Pubblicato in Medicina
Lo rivela una ricerca condotta da ricercatori e medici dell’Università Cattolica – sede di Roma e Policlinico Universitario A. Gemelli IRCCS pubblicata sulla rivista scientifica “Brain Stimulation”. Coinvolti finora circa quaranta pazienti ipovedenti. Con una piccola stimolazione elettrica diretta dall’esterno, in modo assolutamente non invasivo, a retina e nervo ottico si possono ottenere dei miglioramenti visivi nei casi di ipovisione più o meno grave. È quanto hanno dimostrato ricercatori e medici dell’Università Cattolica – sede di Roma e della Fondazione Policlinico Universitario Agostino Gemelli IRCCS. È il risultato di uno studio su circa quaranta pazienti condotto dal dottor Giuseppe Granata, neurologo presso il Policlinico Universitario A. Gemelli IRCCS e coordinato dal professor Paolo Maria Rossini, direttore dell’Area di Neuroscienze del Policlinico Universitario A. Gemelli IRCCS e Ordinario di Neurologia all’Università Cattolica - sede di Roma, pubblicato sulla rivista scientifica “Brain Stimulation”. Gli esperti si sono avvalsi della ‘stimolazione elettrica transcranica’, una tecnica già in uso clinico per malattie quali la depressione maggiore. “Si tratta - spiega il neurologo del Gemelli Granata - di una stimolazione elettrica non invasiva con corrente alternata che si applica vicino agli occhi mediante degli elettrodi a coppetta che il paziente percepisce al massimo come un piccolo formicolio o una leggerissima scossa elettrica”. “Secondo studi recenti - continua Granata - la stimolazione sarebbe in grado di eccitare la retina e in parte anche il nervo ottico”. “Noi l'abbiamo testato su pazienti ipovedenti di varia gravità (da marcata riduzione del campo visivo alla cecità praticamente completa), colpiti sia da lesioni retiniche che del nervo ottico e cerebrali – aggiunge Granata – coinvolgendo a oggi circa quaranta pazienti”.
Pubblicato in Medicina
E' una necessità fondamentale fin dai primi istanti di vita. Una giusta quantità di acqua, maggiore componente del latte materno, mantiene l'idratazione, permette di eliminare le scorie del metabolismo, migliora la capacità di attenzione dei bambini. Dal latte alle bevande vegetali, dall'acqua alle spremute di frutta, nel nuovo numero di ‘A scuola di salute', il magazine digitale a cura dell'Istituto Bambino Gesù per la Salute del Bambino e dell'Adolescente, diretto dal prof. Alberto G. Ugazio, una guida alle diverse bevande disponibili e i consigli per assumere liquidi in modo corretto nelle varie fasi della crescita. La quantità di liquidi di cui si ha bisogno varia in relazione all'età, alle condizioni di salute, all'attività fisica e al regime alimentare. Si comincia a bere con il latte materno, alimento che fornisce i nutrienti necessari per una buona crescita e un normale sviluppo. E' composto per circa l'87% di acqua e da una proporzione ben bilanciata di proteine, grassi e carboidrati. E' facilmente digeribile e soddisfa tutti i fabbisogni alimentari del bambino nei primi 6 mesi di vita. In questo periodo è indicato come alimento esclusivo dall'Organizzazione Mondiale della Sanità e dalle più importanti società scientifiche per la nutrizione. Nel secondo semestre l'offerta di latte materno viene integrata con altri alimenti ed è raccomandata anche durante il secondo anno di vita ed oltre. L'assunzione di latte materno tramite allattamento al seno comporta molti benefici a tutti i bambini, compresi i neonati prematuri: sono più protetti dal rischio di contrarre infezioni, allergie o malattie complesse come diabete di tipo 1 e 2, sindrome dalla morte improvvisa, linfomi e leucemie, obesità, patologie croniche intestinali, ipertensione arteriosa e, nel caso dei nati pretermine, da infezioni sistemiche, retinopatia, displasia broncopolmonare ed enterocolite necrotizzante. Allattare al seno, inoltre, migliora la relazione con la mamma e accresce il quoziente intellettivo del bambino. Quando la mamma non può allattare, nei primi 6 mesi di vita l'alternativa è il latte ‘di formula', un derivato del latte vaccino, in polvere o liquido, con una composizione di nutrienti che si ispira a quello umano. Anche se ben tollerato, non è un alimento sovrapponibile al latte materno. Le formule di ‘proseguimento' sono utilizzate tra i 6 mesi e il primo anno di vita, mentre il latte ‘di crescita' è destinato ai bambini da 1 a 3 anni di età.
Pubblicato in Medicina

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