Per diagnosticare (e curare) un tumore potremmo cominciare ad “ascoltarlo”


Un gruppo di ricerca coordinato da studiosi dell’Università di Bologna ha messo a punto un sistema innovativo che, sfruttando l’effetto fotoacustico, potrebbe permettere non solo di identificare con maggiore precisione le cellule tumorali, ma anche di guidarne l’eliminazione.
Sfruttare l’effetto fotoacustico, che permette di trasformare l’energia luminosa in onde sonore, per identificare e colpire selettivamente le cellule tumorali. È la soluzione proposta da un gruppo di ricerca guidato da studiosi dell’Università di Bologna. I risultati dello studio, pubblicati sulla rivista Advanced Functional Materials, mostrano come si potrebbe utilizzare una particolare molecola a base di carbonio, chiamata “fullerene”, per creare uno strumento utile sia alla diagnosi sia alla terapia dei tumori. “Il fullerene è in grado di incrementare le potenzialità diagnostiche della microscopia fotoacustica, aumentandone in modo significativo la risoluzione spaziale, e questo sia che si stia guardando all’intero organo sia che l’osservazione riguardi un livello sub-cellulare”, spiega Matteo Calvaresi, professore al Dipartimento di Chimica “Giacomo Ciamican”, che ha coordinato la ricerca. “Questo studio apre quindi alla possibilità di un impiego dell'effetto fotoacustico nella diagnostica medica che permetta di rilevare singole cellule tumorali attraverso nuovi mezzi di contrasto”.

Molti degli attuali sistemi di diagnostica per immagini funzionano infatti utilizzando le onde luminose. Tuttavia, la propagazione della luce attraverso i tessuti biologici è attenuata da fenomeni di dispersione che causano una perdita della risoluzione delle immagini, limitando la possibilità di visualizzare i tessuti più interni. Sistemi che invece producono immagini utilizzando l’effetto fotoacustico possono offrire grandi vantaggi, dato che il suono riesce facilmente ad attraversare i tessuti del nostro organismo, sia in entrata che in uscita.


Esistono infatti materiali che emettono delle onde acustiche quando sono colpiti da impulsi di luce molto rapidi. Selezionando la frequenza adatta si produce un effetto di espansione e contrazione del materiale che a sua volta genera un’onda sonora rilevabile. Tra questi materiali c’è il fullerene: una molecola sferica a base di carbonio con una forma che ricorda quella di un pallone da calcio e che, grazie alla sua particolare struttura, è in grado di produrre un segnale sonoro estremamente intenso. C’è però un problema: il fullerene è del tutto insolubile in acqua e questo ha impedito finora di sfruttare le sue proprietà per applicazioni biomedicali. Gli studiosi dell'Università di Bologna si sono quindi messi al lavoro per trovare una soluzione, in collaborazione con un gruppo di ricerca del Center for Translational Cancer Research (TranslaTUM) di Monaco (Germania), guidato da Vasilis Ntziachristos, uno degli inventori della microscopia fotoacustica.

"Abbiamo superato l’ostacolo ricorrendo ad uno stratagemma antico ma efficace: quello del cavallo di Troia, nascondendo cioè il fullerene all’interno di una proteina naturale", racconta Matteo Di Giosia, ricercatore dell'Università di Bologna e primo autore dello studio. "Questo approccio permette di risolvere contemporaneamente due problemi: l’insolubilità del fullerene in ambiente fisiologico e la sua scarsa biocompatibilità, garantiti invece dalla proteina selezionata". La soluzione individuata permette di migliorare le capacità dei sistemi di diagnostica medica, tramite una penetrazione più profonda nei tessuti e la possibilità di ottenere immagini più accurate. Ma il fullerene potrebbe fare di più: potrebbe per esempio essere impiegato anche per la cosiddetta fototerapia del cancro, tramite la creazione di piattaforme fototeranostiche. Si tratterebbe di un trattamento innovativo grazie al quale potrebbe essere possibile non solo identificare ma anche eliminare le cellule tumorali attraverso la luce.


"Il prossimo passo sarà riuscire a introdurre le molecole di fullerene in maniera selettiva solo all’interno delle cellule tumorali", spiega Matteo Calvaresi. "L’idea a cui stiamo lavorando è l'utilizzo di vettori virali capaci di 'infettare' selettivamente solo le cellule tumorali. In questo modo si potrebbe sfruttare la capacità selettiva dei virus modificati in laboratorio, in modo che si indirizzino verso recettori
espressi in eccesso sulla membrana delle cellule tumorali". Se questi ulteriori studi avranno successo, dovranno poi essere seguiti da una sperimentazione clinica.
Pubblicato sulla rivista Advanced Functional Materials con il titolo “A BioConjugated Fullerene as a Subcellular-Targeted and Multifaceted Phototheranostic Agent”, l’articolo ha visto la collaborazione di un gruppo di ricerca dell’Università di Bologna, in collaborazione con studiosi dell’Università degli Studi di Bari “Aldo Moro”, del CNR di Bologna e del TranslaTUM (Germania). La ricerca è stata resa possibile grazie ai progetti Synergy e NanoPhage, sostenuti da Fondazione AIRC per la Ricerca sul Cancro e attivi presso il NanoBio Interface Lab del Dipartimento di Chimica “Giacomo Ciamican” dell’Università di Bologna.

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