“Abbiamo rivelato in che modo è possibile cambiare il destino di queste cellule riuscendo a spingerle a formare nuovo tessuto muscolare e bloccando quindi la loro capacità di generare cellule fibrotiche e adipose”, spiega Mozzetta. “Sapevamo da studi precedenti che le FAP sono capaci di acquisire diverse identità a seconda dell’ambiente in cui si vengono a trovare e in questo lavoro abbiamo capito come riconvertirle in cellule in grado di partecipare alla rigenerazione muscolare, piuttosto che alla degenerazione”. Le studiose hanno rivelato che i geni responsabili dell’acquisizione della capacità di formare nuovo tessuto muscolare sono confinati alla periferia del nucleo delle FAP, dove vengono relegate quelle porzioni del genoma che non sono utilizzate dalle cellule. “La proteina Prdm16 gioca un ruolo cruciale nel bloccare le regioni di DNA codificanti il potenziale muscolare delle FAP alla periferia nucleare, reclutando su di esse gli enzimi G9a e GLP per mantenerle silenti”, specifica la ricercatrice Cnr-Ibpm. “Abbiamo provato quindi a sbloccare queste regioni utilizzando un approccio farmacologico volto ad inibire G9a/GLP, riuscendo a dimostrare che togliendo questo ‘freno’ molecolare questi geni possono ess
ere rilocalizzati dalla periferia verso una parte più attiva del nucleo, sbloccando la capacità delle FAP di formare tessuto muscolare”.
Lo studio potrebbe aprire la strada a un approccio di tipo farmacologico per quelle patologie, come la distrofia muscolare di Duchenne, in cui le FAP contribuiscono alla degenerazione muscolare.
Alla ricerca hanno collaborato gruppi dell’Università Sapienza di Roma, dell’Istituto italiano di tecnologia (Iit) di Roma, dell’Istituto Europeo di Oncologia (Ieo) di Milano, della Freie Universita di Berlino e l’Irbm di Pomezia.