Un nuovo studio, coordinato da Raffaele Sardella e Dawid Adam Iurino del Dipartimento di Scienze della Terra della Sapienza con l’Università di Perugia e in collaborazione con l’ESRF di Grenoble e l’Università di Verona, ha permesso di rivelare, a partire da un frammento di cranio fossile, l’identikit di un ghepardo gigante. Si tratta di uno dei più feroci predatori che i primi uomini entrati in Europa hanno dovuto fronteggiare un milione e mezzo di anni fa.
Il frammento, rinvenuto nella prima metà del ’900 alle pendici del Monte Argentario, era inglobato in una dura matrice rocciosa, costituendo per decenni un enigma per gli studiosi: classificato come leopardo a metà degli anni ’50 e successivamente come giaguaro eurasiatico pleistocenico nel primo decennio degli anni 2000, solo pochi anni fa, quando il fossile è divenuto disponibile per studi scientifici, ne è stata identificata la vera natura. Il cranio è quello di Acinonyx pardinensis, meglio conosciuto come ghepardo gigante, l’antenato dell’attuale felino.
Lo studio, pubblicato sulla prestigiosa rivista Scientific Reports, mette in luce le caratteristiche peculiari di questo predatore: se la dentatura e parte del muso sono infatti simili a quelli degli attuali ghepardi, i velocisti della savana africana, altre caratteristiche del cranio avvicinano questo fossile alle vere pantere. Un mosaico di caratteri quindi che consente di ridefinire l’evoluzione dei ghepardi e apre interessanti interrogativi su quale ruolo ecologico un simile predatore abbia avuto negli ecosistemi europei dell’inizio del Pleistocene. Meno agile del ghepardo, ma potente come una pantera, con il peso di un leone.
Per giungere a questo importante risultato il team di ricerca internazionale ha effettuato una scansione del reperto alla luce di sincrotrone, la radiazione elettromagnetica generata dall’acceleratore circolare dell’European synchrotron radiation facility (ESRF) di Grenoble (Francia), a una velocità vicina a quella della luce.
Ciò ha permesso di “entrare” all’interno del reperto stesso e di ottenere files che, attraverso l’elaborazione di potenti computer, hanno prodotto un modello estremamente dettagliato del fossile, pronto per essere restaurato virtualmente e "stampato" in 3D.
“Analizzare un frammento datato circa 1.5 milioni di anni con una delle strumentazioni più avveniristiche disponibili fra i più importanti centri di ricerca – spiega Raffaele Sardella – ci ha permesso di usufruire di prestazioni ad altissimo livello senza compromettere la conservazione del reperto; cosa che invece poteva accadere con un complesso lavoro di restauro”.