I nuovi risultati delle misurazioni di gravità del pianeta ottenute dalla sonda Juno rivelano, in uno studio pubblicato su Science, che la grande macchia rossa, pur molto estesa, non è profonda come si immaginava. Questa scoperta potrebbe spiegare i motivi della sua evoluzione e forse della possibile scomparsa Giove è il più grande pianeta del sistema solare, con un raggio equatoriale di 71.492 km, ed è composto principalmente da idrogeno ed elio e per questo viene definito “gigante gassoso”.

La caratteristica forse più iconica del pianeta è la Grande macchia rossa, una tempesta anticiclonica scoperta probabilmente da Giandomenico Cassini nel 1665. Oggi questa assomiglia a un ovale di dimensioni approssimativamente pari a 16000 x 12000 km, che ne fanno la più grande tempesta del sistema solare, seppur negli ultimi 100 anni, per cause ancora ignote, si sia ridotta considerevolmente. La Grande macchia rossa porta con sé ancora molti interrogativi: uno di questi riguarda la profondità con cui questa tempesta si inabissa dentro Giove.

A questo come ad altri quesiti sulla dimensione del nucleo ha risposto la sonda Juno, realizzata dalla NASA con un importante contributo italiano.

 

La simulazione quantistica permette di affrontare problemi complessi inaccessibili al calcolo numerico. Un esempio è mostrato da un lavoro svolto dall’Istituto nazionale di ottica del Cnr e del Lens di Firenze, insieme a Cnr-Iom e Università di Trieste e di Bologna, pubblicato su Advanced Quantum Technologies. Il progetto punta a migliorare le performance dei laser a cascata quantica per nuove applicazioni, dalla diagnostica medica al monitoraggio ambientale.


Rivoluzionare l’utilizzo dei laser, rendendoli componenti chiave delle tecnologie quantistiche: dalla sensoristica alla comunicazione, fino al calcolo. Trasportare la corrente di elettroni grazie alla simulazione quantistica. Ridisegnare le proprietà quantistiche di laser a semiconduttore con gli atomi ultrafreddi. Questi i complessi quanto avvincenti obiettivi di un grande progetto finanziato dalla European Flagship on Quantum Technologies, QOMBS, e coordinato dall’Istituto nazionale di ottica del Consiglio nazionale delle ricerche. Ricercatori del Cnr-Ino e del Laboratorio europeo di spettroscopia non lineare (Lens) di Firenze, insieme a colleghi dell’Istituto officina dei materiali (Cnr-Iom) e delle Università di Trieste e di Bologna, hanno pubblicato sulla rivista Advanced Quantum Technologies un lavoro che per la prima volta descrive il modello fisico per raggiungere tale obiettivo.


Lo dimostra un nuovo studio, realizzato da ricercatori dell’Università di Bologna e dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF), che ha individuato per la prima volta, all’interno della Grande Nube di Magellano, un ammasso stellare che ha avuto origine in una galassia diversa.


Come fanno a crescere le galassie? “Mangiando” galassie più piccole. E questo non vale solo per le grandi galassie che inglobano le loro galassie satellite. Ma le stesse galassie satellite, a loro volta, sono in grado attirare e inglobare al loro interno galassie ancora più piccole che le orbitano attorno. A mostrarlo, per la prima volta, è uno studio pubblicato su Nature Astronomy e guidato da ricercatori dell’Università di Bologna e dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF). All'interno della Grande Nube di Magellano, la più grande galassia satellite della Via Lattea, gli studiosi hanno infatti individuato un ammasso stellare (un gruppo molto denso di miliardi di stelle) con caratteristiche chimiche molto diverse da quelle degli altri ammassi vicini. Tanto diverse da poter escludere che quelle stelle siano nate all’interno della galassia in cui si trovano oggi. Questo singolo ammasso stellare – chiamato NGC2005 – deve quindi aver avuto origine altrove, in una piccola galassia satellite, ed essere poi sopravvissuto dopo che questa è stata inglobata all'interno della Grande Nube di Magellano.


Uno studio congiunto dell’Università di Genova in collaborazione con l’Università Statale di Milano e il Naturtejo UNESCO Global Geopark/Istituto D. Luiz ha scoperto che su Marte ci potrebbero essere tane e piste lasciate dagli antichi abitanti del Pianeta Rosso. Lo studio, pubblicato su PeerJ, Fornisce strumenti di pianificazione utili per le prossime analisi condotte dal rover Perseverance, e per le future missioni in cui verranno raccolti campioni di rocce marziane.


Su Marte, tutt’attorno al Cratere Belva, ci potrebbero essere tane e piste lasciate dagli antichi abitanti del Pianeta Rosso. Questa conclusione rivoluzionaria è stata raggiunta in un nuovo studio condotto da un team multidisciplinare di scienziati guidati dal paleontologo Andrea Baucon (Università di Genova) in collaborazione con Fabrizio Felletti (Università degli Studi di Milano), Carlos Neto de Carvalho (Naturtejo UNESCO Global Geopark/Istituto D. Luiz, Portogallo), Antonino Briguglio (Università di Genova), Michele Piazza (Università di Genova). Lo studio è stato pubblicato sul numero di settembre della rivista PeerJ. Lo studio combina tane fossili (icnofossili) provenienti da 18 siti paleontologici terrestri e sofisticati modelli al computer per rispondere ad una delle domande più fondamentali della scienza: dove trovare (eventuale) vita su Marte?

 

Il 2 ottobre all’1.35 ora italiana la sonda spaziale passerà a 200 km dalla superficie del pianeta. A bordo un esperimento, il Mercury Orbiter Radioscience Experiment (MORE), sviluppato dal team guidato da Luciano Iess della Sapienza, che permetterà di determinare la gravità e l’orbita del corpo celeste più vicino al sole
La sonda spaziale BepiColombo, lanciata il 20 ottobre 2018 dal Centro spaziale di Kourou nella Guyana francese, è in viaggio verso Mercurio, la sua destinazione finale. Il primo dei sei sorvoli del pianeta più vicino al Sole avverrà il 2 ottobre 2021 all’1.35 ora italiana (23.15 del primo ottobre, ora di Greenwich), quando la sonda passerà a 200 km dalla superficie.


L’attuale censimento della formazione e della crescita delle galassie dopo il Big Bang è ancora incompleto. Lo svela un team di ricerca internazionale, che in Italia coinvolge cosmologi della Sapienza e della Scuola Normale Superiore di Pisa. I risultati dello studio sono stati pubblicati su Nature
L’universo primordiale è probabilmente molto più ricco di quanto sembri. La polvere interstellare potrebbe celare intere popolazioni di galassie finora sconosciute. È di queste settimane la scoperta ad opera di un team di ricerca internazionale, che in Italia vede coinvolte la Sapienza e la Scuola Normale Superiore di Pisa, di due galassie antichissime, risalenti a circa un miliardo di anni dopo il Big Bang, quando l’Universo aveva raggiunto poco meno dell’8% della sua età.

 

Un team internazionale di astronomi, coordinato da Michael Romano, dottorando presso l’Università degli Studi di Padova e associato all’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF), ha scoperto che circa il 40% delle galassie nell’Universo primordiale si trova in sistemi in fase di fusione.
Viene così confermato lo scenario secondo cui, nelle prime fasi della loro evoluzione, le galassie hanno accresciuto in modo significativo la loro massa fondendosi tra loro Tra gli eventi più spettacolari che si possono osservare nell'Universo locale ci sono sicuramente gli “scontri tra galassie” (galactic mergers, in gergo tecnico): questi avvengono quando due o più galassie si avvicinano a tal punto da iniziare a spiraleggiare l'una sull'altra a causa della gravità, fino a fondersi in un'unica galassia più grande. Se le due galassie hanno più o meno lo stesso numero di stelle (quindi la stessa massa stellare), la galassia risultante avrà circa il doppio della massa di quelle individuali: questo infatti è il meccanismo più veloce con cui le galassie possono crescere.

Tuttavia, solo l’1% delle galassie nell’Universo locale sono osservate nell’atto di fondersi: al giorno d’oggi le galassie crescono prevalentemente perché accrescono gas freddo trasformandolo in stelle (il cosiddetto meccanismo di “formazione stellare”).

 

Un gruppo di ricerca guidato da studiosi dell’Università di Bologna e dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) ha mostrato per la prima volta che alcune Nane Bianche sono in grado di trattenere un sottilissimo strato di idrogeno che consente loro di continuare a produrre energia, rallentando così la fase finale della loro esistenza.


Non tutte le stelle invecchiano allo stesso modo: alcune, nella fase finale della loro vita, conservano una piccola riserva di energia che permette loro di apparire più giovani. Lo ha scoperto un gruppo di ricerca guidato da studiosi dell’Università di Bologna e dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) confrontando la popolazione di Nane Bianche in due sistemi stellari gemelli, grazie ad osservazioni ottenute con il telescopio spaziale Hubble. Quello di “Nana Bianca” è lo stadio finale a cui va incontro la stragrande maggioranza delle stelle nell’Universo (circa il 98%), incluso il nostro Sole. In questa fase, resta solo il nucleo “nudo” della stella che, dopo aver perso gli strati esterni, non è più in grado di produrre alcuna forma di energia e si spegne lentamente, con un progressivo calo sia della luminosità che della temperatura. Fino ad oggi si era sempre ritenuto che tutte le Nane Bianche invecchiassero allo stesso modo e con la stessa velocità. Il nuovo studio – pubblicato su Nature Astronomy – mostra invece per la prima volta che alcune Nane Bianche invecchiano più lentamente di altre perché in grado di trattenere un sottilissimo strato di idrogeno che consente loro di continuare a produrre energia attraverso reazioni termonucleari.


La missione spaziale selezionata dalla Nasa per l’esplorazione di Venere vede coinvolto in maniera determinante il gruppo di ricerca della Sapienza guidato da Luciano Iess. VERITAS dovrà rispondere a molte domande sull’evoluzione di questo pianeta ancora misterioso che, da un passato molto simile a quello della Terra, è diventato uno dei luoghi più inospitali del sistema solare
La missione spaziale VERITAS (Venus Emissivity, Radio Science, INSAR, Topography and Spectroscopy) a cui la Sapienza partecipa con un contributo fondamentale, è risultata vincitrice nella selezione delle missioni planetarie della Nasa. Lo ha comunicato la Nasa stessa il 2 giugno scorso nell’ambito della selezione delle prossime missioni di classe Discovery da 500 milioni di dollari.

VERITAS sarà lanciata tra il 2026 e il 2028 e ospiterà a bordo una strumentazione molto sofisticata finanziata dall’Agenzia spaziale italiana (ASI) a cui ha contribuito il gruppo di ricerca guidato da Luciano Iess, composto da giovani ricercatori della Sapienza.


La scoperta di un team di ricercatori della Sapienza, dell’Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l'energia e lo sviluppo economico sostenibile (Enea) e dell’Università di Pisa. Lo studio è stato pubblicato sulla rivista The Astrophysical Journal.
La costante di Hubble, un parametro cosmologico fondamentale che serve per misurare il tasso di espansione dell’universo, in realtà secondo gli scienziati non sarebbe costante. La scoperta arriva da una nuova ricerca pubblicata sulla rivista The Astrophysical Journal e condotta da un team internazionale composto da ricercatori della Sapienza, dell’Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l'energia e lo sviluppo economico sostenibile (Enea), delle università di Pisa, Salerno e di Michigan, coordinati dal National Astronomical Observatory in Giappone.

 

Scienzaonline con sottotitolo Sciencenew  - Periodico
Autorizzazioni del Tribunale di Roma – diffusioni:
telematica quotidiana 229/2006 del 08/06/2006
mensile per mezzo stampa 293/2003 del 07/07/2003
Scienceonline, Autorizzazione del Tribunale di Roma 228/2006 del 29/05/06
Pubblicato a Roma – Via A. De Viti de Marco, 50 – Direttore Responsabile Guido Donati

Photo Gallery