La sensibilità del Ghigi nei confronti del mondo della scuola e dell’insegnamento delle Scienze Naturali si evince dal documento di figura 3, una lettera priva di firma autografa e senza data rinvenuta all’interno del N. 1 (Anno I: Febbraio 1930) del “Bollettino di Zoologia” pubblicato dall’Unione Zoologica Italiana; la quale, sia per il simbolo dell’UZI e sia per il suo contenuto, può ritenersi autentica. Questa lettera-circolare del Ghigi è un invito agli insegnanti delle “Scuole Medie” ad aderire all’UZI con i vantaggi previsti tra cui l’invio periodico gratuito a tutti i soci del “Bullettino” (1) . Il numero del Bollettino di Zoologia in cui è stata rinvenuta la lettera si apre con il “Rendiconto del XVII Convegno ed Assemblea Ordinaria dell’UZI Unione Zoologica Italiana svoltosi in Firenze il 23 settembre 1929”. L’accluso processo verbale recita: “La seduta ha luogo in un’aula della R. Università di Firenze ed è aperta alle ore 17. Presiede il Presidente Enriques, Segretario Ghigi. Sono presenti il Vicepresidente Mazzarelli ed il Vicesegretario Economo Pierantoni. La Vicepresidente Signora Prof. Monti ha scusato la propria assenza”. Oltre alle figure con cariche sociali sono presenti ventidue soci, tra i quali numerosi affermati zoologi; Baldasseroni, Baldi, Balducci, Beccari, Brighenti, Calabresi (la ben nota Enrica, vittima della Shoah), Colosi, Corti, D’Ancona, Duse, Granata, Issel, Monti Achille (per evitare confusioni con la citata Monti Rina), Padoa, Paoli, Ranzi, Rosa, Sanzo, Sciacchitano, Scordia, Taibel, Vecchi. In chiusura dei lavori, l’Assemblea “fa voti 1°) Che l’insegnamento delle Scienze Naturali venga ripristinato nelle Scuole medie inferiori; 2°) Che in quelle superiori esso abbia carattere prevalentemente dimostrativo anziché verbale e speculativo” (figure 2, 3). Nel libro “La natura e l’uomo” (1955), di grande successo editoriale, Ghigi ricorda che le verità fondamentali sui problemi della natura vanno instillate attraverso la scuola soprattutto nei fanciulli “nei quali le cose vedute lasciano profonda impressione e si concretano in sentimenti che plasmano l’animo loro” (Ghigi, 1955).
Sulla caccia.
Ghigi “con fermezza volle la piena tutela giuridica della fauna selvatica, in particolare di quella migratoria, e molto si adoperò per il recepimento in Italia del diritto internazionale in materia di protezione degli uccelli migratori, a partire dalla Convenzione internazionale di Parigi del 19 marzo 1902” (Spagnesi & Zambotti, 2001). Il suo spiccato interesse per la legislazione venatoria risale al 1896 e si era concretizzato sia nella stampa dell’opera “Caccia” per i tipi della Vallardi nel 1907, sia nella partecipazione all’Esposizione Internazionale della Caccia (Vienna, 1910) anche in qualità di membro della commissione organizzatrice. Il manuale contiene un capitolo dal profetico titolo “Diminuzione della selvaggina e sue cause” nel quale si legge “la selvaggina stazionaria è in diminuzione continua e che la causa principale di tale fenomeno è il bracconaggio” (Pedrotti, 2000). A tal riguardo è interessante constatare come Ghigi costituisca il perfetto ponte di collegamento tra due distinte stagioni del pensiero ecologico, quella ottocentesca e quella del Secondo dopoguerra. I primi contributi dello zoologo bolognese, come ad esempio “Insetti, uccelli e piante in rapporto colla legge sulla caccia” (Bologna, 1896) e “Per la protezione degli uccelli e il ripopolamento dei boschi” (Bologna, 1900), proseguono infatti una tradizione ottocentesca che vedeva nella conservazione faunistica e soprattutto nell’equilibrio tra insetti e uccelli un carattere essenzialmente utilitaristico e, in un certo senso, ancora antropocentrico di un approccio ecologico alla Natura. Questa forma di proto-ecologismo è ben espressa in una pubblica lettura di Giovanni Canestrini (1835-1900), docente di zoologia a Padova e traduttore di molte opere darwiniane in Italia. Nella lettura, tenuta nel 1868, questi affermava che “contro siffatti malanni [causati dalle locuste Oedipoda migratoria e Oedipoda cinerascens] noi dobbiamo reagire con mezzi preventivi e curativi. Fra i primi, il principale sono le leggi severe sulla caccia e l’osservanza di queste leggi.
Le cicogne, le ardee, le cornacchie, le taccole, i tordi e molti altri uccelli distruggono avidamente quelli insetti e vanno quindi conservati con ogni cura possibile” (Canestrini, 1869). In questa direzione i naturalisti italiani si erano mossi sin dai primi decenni dell’Ottocento: addirittura al 1827 risale il “Saggio sugli Insetti più dannosi in agricoltura” di Giuseppe Gené (1800-1847), docente che succedette a Franco Andrea Bonelli e che precedette Filippo De Filippi nella cattedra di filosofia naturale di Torino e che formò un’importante generazione di zoologi; parzialmente inedito e postumo è il volume dello stesso Gené “Dei pregiudizi popolari intorno agli animali aggiuntevi le notizie sugli insetti nocivi” (1853); nel 1865 sarebbe stato il turno di Edoardo De Betta (1822- 1896), erpetologo trentino attivo a Verona autore di una pubblica lettura presso l’Accademia di Agricoltura, Arti e Commercio della città scaligera significativamente intitolata “Degli insetti nocivi all’agricoltura e della sconsigliata e dannosa distruzione degli animali insettivori nella nostra provincia”; nel 1868 nei “Rendiconti del Reale Istituto lombardo di scienze e lettere” sarebbe apparso anche l’importante rapporto “Sopra gl’insetti che devastano i campi della bassa Lombardia” a cura di Giuseppe Balsamo-Crivelli (1800-1874), Antonio Villa (1806-1885) ed Emilio Cornalia (1824-1882), al cui interno leggiamo un’accorata e assai precoce considerazione ecologica: “Ecco l’imprevidenza dell’uomo! Egli si lamenta d’un male che egli stesso ha provocato; grida contro il predominio degli animali nocivi, ed egli per primo distruggendo i nemici naturali di questi, rompe l’equilibrio della natura, e ne risente poi i danni” (Balsamo-Crivelli et alii, 1868).
A queste preoccupazioni di carattere scientifico si affiancava però una situazione di totale blocco normativo. Tra il 1862 e il 1923, quando infine sarebbe stata approvata la Legge n. 1420 “Provvedimenti per la protezione della selvaggina e l’esercizio della caccia”, si sarebbe susseguita almeno una dozzina tra progetti e proposte, senza contare le relazioni ministeriali e le note presentate alle Camere: “derivava da ciò una vera e propria anarchia organizzativa che, con pessime conseguenze, coinvolgeva tutte le 69 Province del Regno d’Italia” (Liberti, 2007b). Del complesso e a tratti grottesco inseguirsi di proposte e slittamenti legislativi si è occupato Matteo Liberti nel suo saggio “Storia dei primi tentativi di legge unitaria sulla caccia” cui si rimanda per maggior approfondimenti (Liberti, 2007a, 2007b e 2007c). In questo contesto legislativo e nella tradizione scientifica che abbiamo visto si collocano i precoci interessi di Ghigi per la legislazione sulla caccia, tra cui si annovera, per esempio, la sua relazione del 1911 per la Camera dei deputati sulla protezione del camoscio d’Abruzzo, nella quale egli segnala la necessità di proibirne la caccia in quanto razza distinta dal camoscio delle Alpi e quindi “specialità tutta italiana, in via d’estinzione”.
Il suggerimento dell’ornitologo Oberholser, conosciuto in occasione della visita al Biological Survey di Washington, stimola nel Ghigi il proposito di delineare la distribuzione dei Mammiferi italiani oggetto di caccia ricavandone carte geografiche che, rilegate, sono molto apprezzate all’esposizione di Vienna. Ottiene quindi l’incarico di preparare un disegno di legge sulla caccia su richiesta del Conte Arrigoni degli Oddi, capo del cosiddetto “Ufficio Ornitologico” del Ministero dell’Agricoltura dovuto alla fervida fantasia dello zoologo e antropologo Enrico Hillyer Giglioli (1845-1909), organizzatore della “Collezione Centrale dei Vertebrati d’Italia” in Firenze definita dallo stesso Ghigi “vero monumento del genere”. Il sedicente “Ufficio Ornitologico” fornisce a Ghigi l’idea di costituire il “Laboratorio di Zoologia applicata alla Caccia”, in quel momento ritenuta prematura. Si giunge quindi alla approvazione della Legge n. 1420 del 1923, nucleo della nostra legislazione venatoria nazionale e prima legge valida sull’intero territorio nazionale. Nella sua Autobiografia Ghigi ricorda: “Il nocciolo della legge del 1923 fu un compromesso tra i grandi riservisti tosco-laziali ed i liberi cacciatori romani, che determinò la soppressione di fatto dell’articolo del codice civile che dava facoltà al proprietario di vietare l’ingresso nel proprio fondo a scopo di caccia e la limitazione delle riserve private a non oltre il quinto del territorio di ciascuna provincia.
Questa disposizione accontentò i grandi riservisti sia perché videro garantite dalla legge le loro riserve sia perché rimaneva la possibilità di costituire nuove riserve, in quanto nella maggior parte delle province il quinto non era coperto. Dall’altro lato i cacciatori romani ebbero partita vinta in tutto il territorio del Regno, perché fu stabilito che chiunque fosse munito di licenza di cacciapotesse entrare in qualsiasi terreno, purché questo non fosse chiuso in modo tale da impedire materialmente l’ingresso del fondo agli uomini e al bestiame. Ciò permetteva ai cacciatori romani di andare tranquillamente a caccia in Maremma, nella Selva di Terracina ed in tutte quelle località dell’agro romano che non erano state modificate e che costituivano splendidi territori di caccia per la presenza di cinghiali, di caprioli e di una enorme quantità di uccelli di passo, specialmente beccacce ed anatre. È opportuno notare che a seguito di quella legge in tutte le regioni d’Italia i quattro quinti del territorio furono aperti alla libera caccia e sul territorio nazionale si cominciò ad assistere ad un sempre maggiore depauperamento di ogni specie di selvaggina stanziale e dei piccoli uccelli utili all’agricoltura” (Autobiografia).
La soppressione dello jus prohibendi, ovvero la facoltà data al proprietario del fondo di interdire l’accesso nel proprio terreno agli estranei è contestuale al principio del res nullius secondo il quale la selvaggina è proprietà del primo occupante, costituito, nel migliore dei casi, dal cacciatore munito di licenza che se ne impadronisce mediante l’esercizio venatorio. Contro questi principi si batte il Laboratorio di Zoologia applicata alla Caccia (v. oltre) con l’obiettivo del loro superamento da parte del legislatore. Ricordano opportunamente Spagnesi & Zambotti (2000): “Il residuo del jus prohibendi poteva essere rintracciato, allo stato rudimentale, nella possibilità che veniva offerta al proprietario di stabilire un fondo chiuso ovvero una riserva di caccia, condizioni queste che si rendevano spesso di difficile realizzazione”. Di qui alle cosiddette “efficaci azioni di ripopolamento “e di “acclimazione di selvaggina esotica” il passo è breve e Ghigi, in qualità di Presidente della “Commissione venatoria”, si occupa dell’introduzione di pernici cinesi e colini della Virginia, questi ultimi liberati nelle foreste demaniali di Cecina e Follonica; entrambi questi esperimenti dettero esito negativo.
L’esame delle singole realtà ambientali che caratterizzano il territorio italiano ai fini della regolamentazione dell’attività venatoria viene assegnato nel 1931 all’Istituto di Zoologia della Regia Università di Bologna. Quest’ultimo si occupa di studiare le vie di migrazione dei piccoli Passeriformi, come dimostrano le ricerche statistiche sull’uccellagione svolte da Ghigi nella prima metà degli anni Trenta. L’istituzione del “Corso di Zoologia applicata alla caccia”, proposto da Ghigi nel 1931, è approvato nel 1933. Il Laboratorio di Zoologia applicata alla Caccia viene di fatto istituito nel 1933; nel 1977 diventa Istituto Nazionale di Biologia della Selvaggina e nel 1992 Istituto Nazionale per la Fauna Selvatica. Successivamente confluito in ISPRA, esso continua a rivestire attualmente un ruolo di primo piano nel campo della conservazione e gestione della fauna selvatica della quale indaga status, evoluzione e rapporti con le altre componenti ambientali. Nel 1939 il Laboratorio diventa organo consultivo centrale scientifico-tecnico permanente del Ministero dell’Agricoltura e delle Foreste per ogni questione relativa alla caccia. Sempre alla fine degli anni Trenta, il Laboratorio fornisce parere favorevole in merito al numero di Osservatori Ornitologici esistenti e funzionanti nell’Italia settentrionale e centrale. Nel 1942, la sede del Laboratorio viene individuata nei locali attigui all’Istituto di Zoologia dell’Università di Bologna. Ghigi si adopera affinché il Laboratorio non abbia specifiche finalità universitarie bensì compiti assai più estesi, mirando, sin dalla sua istituzione, al riconoscimento della personalità giuridica pubblica del medesimo al fine di rafforzarne l’autonomia scientifica; quest’ultima viene consolidata dallacaratura scientifica (non amministrativa!) della figura del suo direttore. Le disposizioni contenute nell’art. 34 della legge n. 799 del 1967 attribuiscono finalmente al Laboratorio personalità giuridica pubblica, oltre ad una serie di varie funzioni inerenti alla sua attività scientifica e di consulenza in
materia di caccia. Notevole il fatto che, in aggiunta a queste funzioni obbligatorie, viene riconosciuto al Laboratorio un certo potere di autodeterminazione e di iniziativa tecnico-scientifica (Spagnesi & Zambotti, 2000). La direzione di Ghigi è caratterizzata da riconosciuta serietà e alta competenza, il che peraltro lo pone nella scomoda situazione di vedersi rifiutate le dimissioni quando, per tutti gli anni Cinquanta, manifesta il desiderio di essere sostituito nella direzione da Augusto Toschi (1906-1973), considerato da Ghigi quale unico specialista italiano nello studio dei mammiferi e degli uccelli, anche in qualità di autore di “Avifauna Italiana” (1969, Editoriale Olimpia, Firenze) e coautore, insieme a Benedetto Lanza del Vol. IV “Mammalia. Generalità, Insectivora, Chiroptera” della collana “Fauna d’Italia” (1959, Calderini, Bologna). La sua proposta di dimissioni e di relativa staffetta a Toschi viene rifiutata dai ministri Antonio Segni ed Emilio Colombo e dallo stesso Presidente della Repubblica Luigi Einaudi; infine, il Ministro dell’Agricoltura Mario Ferrari Aggradi le accoglie manifestando peraltro l’intendimento di continuare ad avvalersi della apprezzata collaborazione dello zoologo bolognese. La successione avviene il 30 giugno 1959, quando Ghigi è già ultraottantenne, con la nomina di Augusto Toschi in qualità di Direttore del Laboratorio (Ghirardelli, 1973; Spagnesi & Zambotti, 2000).
Abbiamo già menzionato il contributo di Ghigi ai lavori della “Commissione per la Conservazione della Natura e delle sue risorse” nel cui ambito viene realizzato il “Libro Bianco sulla natura in Italia” (1971) a cura di Longino Contoli e Salvatore Palladino. Nella presentazione del “Libro bianco”, stilata poco prima della scomparsa, Ghigi sottolinea che “l’azione protettiva deve essere continua e parte integrante della politica del paese”. A succedere a Ghigi alla Presidenza della Commissione è Giuseppe Montalenti; tuttavia nel 1980, tra la sorpresa e la preoccupazione dei naturalisti più sensibili, la Commissione viene soppressa dal CNR. Si tratta di un provvedimento imputabile al fastidio causato dalle circostanziate denunce di questo organo di alta competenza. Quante volte lo stesso Ghigi ha richiamato l’attenzione sull’insipienza della classe dirigente delnostro paese “sorda ai problemi della natura” (Pedrotti, 2000). Sulla difesa della natura. Nel 1954 Ghigi contribuisce alla fondazione della rivista “Natura e Montagna”, da allora particolarmente viva e vitale, che dirige dal 1954 al 1966. Un’obiezione relativa al presunto pleonasmo contenuto nel titolo della testata è respinta decisamente da Ghigi, il quale ribadisce che il termine “Montagna” costituisce semmai un rafforzamento (Corbetta, 2000). In linea con questa posizione, già nel primo ventennio del Novecento Ghigi aveva perorato, assieme ad Erminio Sipari e a Pietro Romualdo Pirotta, la costituzione di un parco nazionale nell’Appennino abruzzese, e con essi aveva in seguito sostenuto la creazione del Parco Nazionale d'Abruzzo (dal 2000, PNALM Parco Nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise), istituito su iniziativa privata ed inaugurato il 9 settembre 1922, prima del riconoscimento governativo. La precaria condizione dei nostri parchi nazionali nei primi decenni del Secondo dopoguerra viene riscontrata da Ghigi in un sopralluogo effettuato proprio nel Parco abruzzese nel 1948 assieme ad Augusto Toschi e Lamberto Leporati. Per inciso, quest’ultimo sarebbe subentrato ad Augusto Toschi nella direzione dell’Istituto Nazionale per la Fauna Selvatica e, a sua volta, a lui sarebbe infine seguito Mario Spagnesi. Nell’occasione del sopralluogo viene accertata la consistenza della fauna dell’area, depauperata in conseguenza degli eventi bellici (Spagnesi & Zambotti, 2001). Ghigi sostiene con rara perspicacia che “i mali del piano si curano al monte. È in montagna che si prevengono i pericoli delle acque nella pianura” (Spagnesi & Zambotti, 2001). Risalgono agli ultimi anni del XIX secolo e al primo ventennio del successivo una serie di opere memorabili tra cui i già citati “Insetti, uccelli e piante in rapporto colla legge sulla caccia” (Bologna, 1896), “Per la protezione degli uccelli e il ripopolamento dei boschi” (Bologna, 1900), “I nostri pesci d’acqua dolce - lezioni popolari” (Bologna, 1907) oltre alla proposta, di grande successo, di pubblicare serie iconografiche degli uccelli d’Italia utili all’agricoltura (1938-1940) realizzate in cartoline artisticamente illustrate. Per quanto riguarda l’attenzione a questi argomenti, anche e soprattutto in termini di divulgazione, il testo dello zoologo sicuramente più interessante è “La natura e l’uomo”, edito per la prima volta nel 1955 e poi rivisto e accresciuto fino alla quarta edizione del 1970, sempre per i tipi dell’Editrice Studium. Anche in questo caso siamo di fronte ad un’opera che, da una parte, raccoglie una lunga tradizione italiana ottocentesca di studi sul rapporto tra essere umano e Natura e, dall’altra, si inserisce con puntualità nel contesto scientifico-culturale internazionale degli anni Cinquanta e Sessanta. Il quindicennio incorniciato dalle due date indicate poco sopra, 1955 e 1970 o, volendo allargarsi, 1972, è segnato da importanti iniziative. A titolo d’esempio, al 1955 risale la fondazione di Italia Nostra, associazione che si propone la tutela e la valorizzazione di paesaggi e patrimoni culturali del nostro Paese; nel 1961 viene fondato il WWF (tra i cui fondatori troviamo il già citato Julian Huxley); nel 1972 il System Dynamics Group del MIT presenta al Club di Roma il report epocale, dal titolo “I limiti dello sviluppo”.
Come si diceva, Ghigi fa da ponte tra questa stagione e la tradizione proto-ecologista della biologia italiana ottocentesca. Si prenda in considerazione questo fatto curioso. All’inizio degli anni Duemila, sulle pagine di “Nature” (Crutzen, 2002) e per i lettori italiani nel volume “Benvenuti nell’Antropocene” (Crutzen, 2005) il Nobel per la chimica Paul Crutzen presentò al grande pubblico il conio del termine Antropocene, l’epoca geologica in cui la presenza dell’essere umano è riscontrabile nella stratigrafia terrestre. In questi testi i riferimenti ai prodromi ottocenteschi di tale concetto sono soltanto due: il terzo volume del “Corso di geologia” (1873), dove l’abate geologo Antonio Stoppani proponeva di parlare di una “età antropozoica”, e il corposo saggio “L’uomo e la natura” di George Perkins Marsh, edito inizialmente nel 1864 in inglese, ma poi rivisto e ampliato in un’edizione esclusivamente italiana del 1872 stampata dall’editore fiorentino Barbèra. In effetti, la biologia italiana tardo-ottocentesca aveva sviluppato uno spiccato interesse per le questioni antropologiche, assorbendo più gli interrogativi di “Evidence as to Man’s Place in Nature” (1863) di Thomas Henry Huxley (il bull-dog di Darwin, come veniva chiamato) e del materialismo tedesco à la Ernst Haeckel che le moderate e caute riflessioni di Darwin (Pancaldi, 1983). Per proporre un esempio assolutamente non esaustivo, il già citato Canestrini nel 1866 aveva pubblicato il volume italiano più innovativo in termini di teoria evolutiva, “Origine dell’uomo” (Milano, 1866). Il fatto che Crutzen per parlare dei prodromi ottocenteschi all’idea di Antropocene sia dovuto
ricorrere a volumi di circolazione e fattura italiana dà una chiara idea di quanto la questione dei rapporti tra essere umano e ambiente fosse rilevante per la biologia del periodo. Le radici di Ghigi affondano immancabilmente in questo clima scientifico-culturale. Ma, come si anticipava, lo zoologo porta con sé questi interessi per tutta la sua carriera e li conduce a maturazione nel Secondo dopoguerra declinandoli in un contesto storico molto diverso, dove gli interessi di maggior importanza stanno diventando la “Population Bomb” (per usare il titolo di un importante libro di Paul Ehrlich del 1968), la “primavera silenziosa” (anche qui l’espressione è presa in prestito da un fondamentale volume di Rachel Carson datato 1962) causata dall’uso sconsiderato di pesticidi e insetticidi e, infine, il rapporto tra ambiente, paesaggio e impatto antropico.
Se si scorre l’indice de “La natura e l’uomo” di Ghigi, si incontrano tutti questi argomenti. Il primo capitolo è dedicato allo studio dell’“Incremento della popolazione umana” e presenta alcune interessanti riflessioni su quelli che nel 1972 saranno definiti i “limiti dello sviluppo”, sollevandouna questione che racchiude gli sforzi di un’epoca drammatica ma fondamentale per la storia del pensiero ecologico. Scorrendo i titoli dei capitoli del volume di Ghigi ne troviamo uno, il decimo, dedicato a “Il flagello degli insetticidi” e alcuni altri dedicati ai temi della circolazione della vita, degli equilibri biologici, delle regressioni di flora e fauna, con particolare attenzione ai temi che conosciamo già della caccia e del suo abuso. Ecco alcuni titoli di paragrafi del capitolo dedicato all’argomento: “Specie estinte ad opera dell’uomo”, “Specie in via d’estinzione”, “Bisonte d’America”, “Castoro del Canada”, “Altre carneficine”, “Diminuzione degli uccelli”, “Gli uccelli e l’agricoltura”. Infine, gli ultimi due capitoli de “La natura e l’uomo” chiudono il cerchio con quantodelineato nelle pagine precedenti: uno è dedicato alla “Protezione della natura e del paesaggio” e ci ricorda che in quegli stessi anni, tra il 1955 della prima edizione e il 1970 della quarta, uno dei principali problemi italiani era quello dell’istituzione e della tutela dei parchi naturali; l’altro ci riporta invece al tema dell’educazione scolastica ed è intitolato “Istruzione e coscienza,naturalistica”. Ghigi vi affronta uno dei temi che aveva più a cuore, quello ancora così attuale della didattica tanto a scuola quanto nei musei naturalistici (figure 4, 5).
- Alessandro Ghigi - A cinquanta anni dalla scomparsa
- Alessandro Ghigi morfologo e zoogeografo