Ambiente

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Secondo gli esperti del Global Footprint Network con questo stile di vita avremo bisogno di 1,7 pianeti

 
Oggi meno del 25% della superficie complessiva delle terre emerse del nostro pianeta sono in una situazione naturale
 
WWF: urgente un piano globale per la difesa della biodiversità planetaria, il nostro capitale naturale
 
L’umanità utilizza risorse naturali più velocemente di quanto gli ecosistemi della Terra siano in grado di rigenerare: il 1 agosto 2018 secondo gli esperti  del Global Footprint Network avremo consumato le risorse naturali che il nostro Pianeta è in grado di rigenerare in un anno. Dal 2 agosto, staremo simbolicamente erodendo il capitale (naturale) del pianeta. 
"In pratica è come se stessimo usando 1,7 Terre - sottolinea Gianfranco Bologna, Direttore Scientifico WWF Italia - . Secondo i calcoli del Global Footprint Network il nostro mondo è andato in overshoot nel 1970 e da allora il giorno del sovrasfruttamento è caduto sempre più presto. Il deterioramento dello stato di salute degli ecosistemi e della biodiversità presenti sulla Terra continua a crescere - continua il direttore scientifico del WWF Italia - . Le ricerche più autorevoli ci documentano che allo stato attuale il degrado dei suoli della Terra dovuto all’impatto umano sta esercitando un ruolo fortemente negativo sul benessere umano, in particolare per almeno 3.2 miliardi di individui, e sta contribuendo alla sesta estinzione di massa della ricchezza di biodiversità della Terra. La valutazione del costo complessivo di questo degrado, causato dalla perdita di biodiversità e dei servizi ecosistemici, viene valutato in più del 10% del prodotto lordo mondiale. Al 2014 più di 1.5 miliardi di ettari di ambienti naturali sono stati convertiti in aree coltivate. Oggi meno del 25% della superficie complessiva delle terre emerse del nostro pianeta sono in una situazione naturale. Secondo gli esperti si stima che, al 2050, questa quota potrebbe scendere al 10%, se non si agisce significativamente per invertire la tendenza attuale". 

Nemmeno gli ecosistemi marini sono esenti dall’impatto dell’azione umana. Il recentissimo lavoro, apparso la scorsa settimana, di alcuni tra i grandi ecologi marini e biologi della conservazione di fama internazionale (Jones Kendall ed altri “The Location and Protection Status of Earth’s Diminishing Marine Wilderness” apparso sulla rivista scientifica “Current Biology”) ha cercato di individuare lo stato della naturale integrità degli ecosistemi marini, tenendo conto dell’analisi, anche sinergica, di 15 fattori di pressione dovuti all’intervento umano. Ne risulta che, allo stato attuale, è possibile indicare che solo il 13.2% (che copre circa 55 milioni di kmq) di tutti gli oceani del mondo hanno una situazione di wilderness marina, e queste aree sono situate soprattutto nei mari aperti dell’emisfero meridionale e alle estreme latitudini.

Primi risultati dello studio su un piccolo coleottero verde, considerato scomparso da oltre un secolo e ritrovato lo scorso anno dal team di ricercatori della Sapienza nel cuneese. La ricerca, associata al ritrovamento della specie, fa luce su importanti aspetti della sua ecologia, biogeografia e biologia della conservazione. Lo studio è pubblicato sulla rivista Insect Conservation and Diversity Proprio come i mitici e inafferrabili folletti dei boschi, chiamati “salvan” dagli abitanti delle Alpi Marittime, una isolatissima specie di piccoli coleotteri verdi della famiglia dei Nitidulidi era sfuggita per più di un secolo alle intense ricerche degli entomologi italiani e francesi. Quando ormai era data per estinta, lo scorso anno il team di ricercatori della Sapienza, coordinato da Paolo Audisio del Dipartimento di Biologia e biotecnologie “Charles Darwin”, ha ritrovato, durante una breve spedizione in una località delle Alpi Marittime sopra l’abitato di Palanfré, pochi esemplari dell’elusivo insetto Brassicogethes salvan. Qui i ricercatori hanno finalmente individuato anche la sua pianta ospite, la rara e subendemica Brassicacea Descurainia tanacetifolia.

 



Uno straordinario video di mamma tigre con due successive cucciolate è stato realizzato dal WWF nelle foreste di Sumatra centrale, in Indonesia, sito World Heritage UNESCO. Le spettacolari immagini mostrano tre cuccioli seguire la loro mamma, poi li vediamo cresciuti nella fase di “subadulti”, successivamente l’incontro di “mamma Rima” con un  maschio e nei secondi finali una nuova cucciolata, questa volta con 4 piccoli.

“Questo video è una meraviglioso esempio di come le tigri si riproducono ‘come gatti’ "se hanno un habitat protetto, abbastanza prede e sono lasciate in pace. Per raggiungere l'obiettivo TX2 (raddoppiare i numeri della tigre allo stato selvatico entro il 2020) abbiamo bisogno della collaborazione di governi, aziende, comunità locali e di tutti coloro che si occupano di tigre per sostenere gli sforzi di conservazione”, ha dichiarato Michael Baltzer, leader del WWF Tigers Alive che aggiunge: “Apprezziamo gli sforzi del governo indonesiano per salvare questo magnifico animale e aumenteremo il nostro sostegno per incrementare la popolazione della tigre a Sumatra, attraverso il potenziamento delle aree protette e dei corridoi che permettono a questi animali di spostarsi”.
La situazione di questo meraviglioso felino resta infatti critica a causa di bracconaggio e perdita di habitat. Un secolo fa c’erano circa 100.000 tigri in natura, oggi abbiamo perso il 95% della popolazione delle tigri selvagge, e restano circa 3.890 individui nei 13 Paesi asiatici che ancora ospitano il felino: Bangladesh, Buthan, Cambogia, Cina , India, Indonesia, Lao, Malesia , Birmania, Nepal , Russia, Thailandia, Vietnam.

Nei giorni scorsi il WWF Italia ha lanciato l’iniziativa Cat4Cats in soccorso della tigre, rivolgendo un appello ai gatti italiani e chiedendo ai loro proprietari, attraverso la campagna “A-MICI” di adottare una tigre e inviare ai social Facebook, Instagram, Twitter, WWF un selfie col proprio micio che il WWF pubblicherà sui propri profili.
 
Clicca qui per vedere  il video: https://www.youtube.com/watch?v=ycSnQToUY6o

 

 

Migliora, con studi di maggior dettaglio, il quadro conoscitivo nazionale

 

Si aggiorna lo scenario del dissesto idrogeologico in Italia: nel 2017 è a rischio il 91% dei comuni italiani (88% nel 2015) ed oltre 3 milioni di nuclei familiari risiedono in queste aree ad alta vulnerabilità. Aumenta la superficie potenzialmente soggetta a frane (+2,9% rispetto al 2015) e quella potenzialmente allagabile nello scenario medio (+4%); tali incrementi sono legati a un miglioramento del quadro conoscitivo effettuato dalle Autorità di Bacino Distrettuali con studi di maggior dettaglio e mappatura di nuovi fenomeni franosi o di eventi alluvionali recenti. Complessivamente, il 16,6% del territorio nazionale è mappato nelle classi a maggiore pericolosità per frane e alluvioni (50 mila km2). Quasi il 4% degli edifici italiani (oltre 550 mila) si trova in aree a pericolosità da frana elevata e molto elevata e più del 9% (oltre 1 milione) in zone alluvionabili nello scenario medio.

Foto 1: Campo scientifico in un lago perennemente ghiacciato di Tarn Flat (Foto Baio © PNRA) Un team di ricerca al quale partecipa anche l’Istituto per l’ambiente marino costiero del Cnr sta studiando le forme di vita nelle brine dei laghi ghiacciati del Polo Sud, ambienti che ripropongono condizioni estreme simili a quelle presenti sul Pianeta Rosso. La ricerca è stata pubblicata su Scientific Reports

 Un team di ricerca italiano del quale fa parte anche l’Istituto per l’ambiente marino costiero del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr-Iamc) di Messina, oltre alle Università dell’Insubria, di Perugia, di Bolzano, di Trieste, di Venezia e della Tuscia, ha studiato in Antartide le brine, liquidi molto salati, in cui prosperano microorganismi che si sono adattati a vivere in crio-ecosistemi (sistemi estremi caratterizzati da basse temperature). Lo studio è stato condotto in un lago perennemente ghiacciato di Tarn Flat, nella Terra Vittoria, dove sono stati rinvenute due distinte comunità di funghi in due strati di brine, separati da un sottile strato di ghiaccio di 12 cm. I risultati ottenuti sono stati pubblicati sulla rivista Scientific Reports.

“Quanto evidenziato rende possibile ipotizzare una prospettiva di vita anche in ambienti analoghi, quali le Lune ghiacciate del sistema solare o Marte. L’ipotesi che possa esistere una qualche forma di vita in ambienti extraterrestri è legata al fatto che vi è stata rilevata la possibile presenza di brine, come in Antartide”, spiega Maurizio Azzaro del Cnr-Iamc, coautore dello studio. “I crio-ecosistemi sono studiati per comprendere come queste realtà funzionino sulla Terra e quali potrebbero essere le fonti di energia in grado di consentire la vita in analoghe condizioni estreme. Ancora non sappiamo se nelle brine di altri pianeti del sistema solare ci siano microbi ma per studiare la possibile abitabilità di tali sistemi extraterrestri, in futuro, si potrebbero impiantare microbi terrestri”.

 

 

Pubblicata sul Journal of Ecology, rivista della British Ecological Society, la ricerca condotta dall’Università di Pisa ha preso in esame i fondali dell’Isola di Capraia nell’Arcipelago Toscano

Una ricerca dell’Università di Pisa ha rivelato per la prima volta il meccanismo che favorisce la diffusione di una delle specie aliene più presenti nel Mediterraneo, Caulerpa cylindracea. Il segreto sta infatti nella capacità di questa macroalga verde di origine Indo-Pacifica, tipica delle zone tropicali, di modificare i fondali che colonizza in modo da garantirsi un vantaggio competitivo rispetto alle specie native. La scoperta arriva da uno studio pubblicato sul Journal of Ecology, la rivista della British Ecological Society, e condotto dai ricercatori del dipartimento di Biologia dell’Ateneo pisano in collaborazione con i colleghi australiani della University of New South Wales e del Sydney Institute of Marine Science, insieme agli italiani delle Università di Cagliari e Politecnica delle Marche e della Stazione Zoologica Anton Dohrn di Napoli. 

 

Uno studio internazionale, al quale hanno partecipato l’Istituto per lo studio degli ecosistemi del Cnr e l’Università di Torino, dimostra che le dimensioni corporee degli animali invertebrati in futuro varieranno a causa del cambiamento climatico e dell’urbanizzazione. La scoperta, pubblicata su Nature, fornisce indicazioni per una pianificazione accurata delle aree verdi urbane che possa mitigare l’effetto del riscaldamento globale sulle comunità animali

 

Insetti, ragni e crostacei in un prossimo futuro andranno incontro a variazioni delle loro misure corporee a causa del riscaldamento globale, a seconda che si trovino in città, in aree naturali o in zone frammentate e questo avrà conseguenze per le specie che di essi si nutrono. A sostenerlo, uno studio internazionale pubblicato sulla rivista Nature a cui hanno preso parte l’Istituto per lo studio degli ecosistemi del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr-Ise) e il Dipartimento di scienze della vita e biologia dei sistemi (Dbios) dell’Università di Torino. La ricerca, svolta in Belgio e finanziata dal governo belga, ha preso in considerazione dieci gruppi di invertebrati in habitat terrestri e acquatici con temperature diverse a seconda del livello di urbanizzazione, più calde in città, a temperature intermedie in habitat agricoli, e meno calde in habitat naturali.

“I risultati mostrano che in generale le comunità animali sono costituite da specie progressivamente sempre più piccole all’aumentare della temperatura”, spiega Elena Piano dell’Università di Torino. “Una temperatura ambientale più elevata, come quella che si trova in città, aumenta i tassi metabolici e le specie più piccole si riscaldano prima di quelle più grandi, raggiungendo le temperature corporee adatte alle loro attività: questo è vero soprattutto per gli animali invertebrati, la cui dimensione corporea è quindi legata all’intero ecosistema”.


La mappa/cartografia delle ultime foreste selvagge d’Europa è stata realizzata da un team di ricerca internazionale con la collaborazione del Dipartimento di Biologia ambientale della Sapienza. Le aree vergini, sebbene molto rare, piccole e situate in zone remote, costituiscono un patrimonio naturale insostituibile in termini di valore ecologico e di conservazione. Lo studio è pubblicato sulla rivista Diversity&Distributions
Agricoltura e selvicoltura hanno trasformato gran parte del paesaggio forestale europeo, ma esistono ancora luoghi veramente incontaminati. A dimostrarlo uno studio sostenuto dal progetto europeo Horizon 2020 e coordinato dall’Università di Humboldt di Berlino in collaborazione con 29 istituzioni di ricerca, incluso il Dipartimento di Biologia ambientale della Sapienza.

Il team di ricerca internazionale ha creato una cartografia, la più completa e dettagliata mai realizzata finora, delle foreste primarie ancora presenti in Europa, identificandole in più di 1,4 milioni di ettari in 34 Paesi europei.

Il Consiglio Nazionale delle Ricerche è presente con la base Dirigibile Italia nell'Artico, luogo fragile e cruciale per lo studio dei processi legati al cambiamento climatico. Ecco due risultati della ricerca su questi importanti e complessi aspetti che danno conferma e in qualche modo quantificano il riscaldamento dell’acqua e dell’aria e lo scioglimento del permafrost, lo strato di terreno perennemente ghiacciato

Il Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR) è presente con proprie stazioni e attività di ricerca in entrambi i poli terrestri. In particolare, nel Circolo Polare Artico, gestisce la base Dirigibile Italia.

L’Artico, un luogo fragile e cruciale per la Terra, si sta riscaldando in modo molto maggiore di quanto avvenga nel resto del pianeta. In tale regione molti processi legati al cambiamento climatico possono essere amplificati. Ad esempio, il ritiro dei ghiacci causato dal riscaldamento causa ulteriore riscaldamento perché riduce l’albedo (la capacità delle superfici “bianche” di riflettere la radiazione solare), il riscaldamento della colonna d’acqua in assenza di ghiaccio estivo porta allo scioglimento del fondale marino perennemente ghiacciato (permafrost), con la possibilità che il metano intrappolato nei fondali marini possa essere ceduto all'atmosfera, conseguente aumento di concentrazione di questo gas serra e ulteriore riscaldamento del pianeta.

“La ricerca scientifica italiana in Artico contribuisce agli studi internazionali e interdisciplinari per aumentare la conoscenza dei cambiamenti climatici”, afferma il presidente del Cnr Inguscio. “Il fine è informare i policy maker, la comunità scientifica, le organizzazioni internazionali, le singole persone e, al tempo stesso, collaborare a mitigarne gli impatti e consentire una gestione sostenibile degli ecosistemi naturali e dell’attività umana nella regione”.

Allo stato attuale, l’attività del Cnr nella Stazione artica si esplica attraverso oltre 20 progetti di ricerca, concernenti fisica dell'atmosfera, oceanografia e biologia marina, geologia e geofisica, indagini sugli ecosistemi e sul paleoclima. Ecco due risultati della ricerca su questi complessi e cruciali aspetti:

 

  1. Il sito osservativo integrato CNR alle Svalbard dimostra che il riscaldamento in Artico è maggiore di quello globale

Un ancoraggio (mooring) posizionato dal CNR nel Kongsfjorden alle Isole Svalbard misura il riscaldamento delle acque e la stagionalità del ghiaccio marino da sette anni. I dati offerti dall’ancoraggio permettono di misurare temperatura, salinità e altri parametri su tutta la colonna d’acqua per un centinaio di metri di profondità. I dati sono confrontati con quelli della Amundsen-Nobile Climate Change Tower, la torre con cui da dieci anni il CNR monitora l’atmosfera, sempre alle Svalbard. I dati integrati mare/aria dell’ancoraggio nel fiordo e della torre documentano in Artico un indubitabile aumento delle temperature. L'aumento della temperatura di aria e acqua ha anche un ulteriore inequivocabile impatto sulla velocità di scioglimento dei ghiacciai e sui flussi di “particellato”, il materiale solido che questi portano nel fiordo.

 

Il campo remoto presso l'ice cap di Renland a circa 2200 m sul livello del mare. Si può distinguere il sito della perforazione (tenda bianca) e il campo che ospitava il team di perforazione.

 

Ricostruite le variazioni atmosferiche dello iodio dal 1760 a oggi grazie a una carota di ghiaccio. L’aumento può avere effetti sull’aerosol ultrafine e sulla temperatura

 

Le analisi chimiche effettuate in una carota di ghiaccio prelevata dalla penisola di Renland (est della Groenlandia) hanno evidenziato un rapido aumento delle concentrazioni atmosferiche dello iodio, causato dall’innalzamento dei livelli di ozono dovuto alle attività umane e al recente ritiro del ghiaccio marino artico. La scoperta è stata pubblicata sulla rivista Nature Communications da un team internazionale di scienziati, tra i quali Andrea Spolaor dell’Istituto per la dinamica dei processi ambientali del Consiglio nazionale delle ricerche (Idpa-Cnr) e Carlo Barbante, direttore dell’Istituto Cnr e professore all’Università Ca’ Foscari Venezia.

“Attraverso uno studio multidisciplinare condotto sulla carota di ghiaccio prelevata in Groenlandia siamo riusciti a ricostruire e spiegare le variazione atmosferiche dello iodio dal 1760 fino ad oggi, mettendo in evidenza che le concentrazioni sono rimaste stabili fino alla metà del ventesimo secolo ma sono triplicate negli ultimi cinquant’anni”, spiegano Spolaor e Barbante. “Grazie anche all’uso di modelli climatici che includono processi sia atmosferici sia chimici, si è compreso che l’aumento delle concentrazioni di ozono durante la cosiddetta “Great acceleration” (l’incremento dell’impatto umano sull’ambiente nel secondo dopoguerra) e la diminuzione del ghiaccio marino sono le cause principali dell’aumento di iodio atmosferico nella regione del nord Atlantico. L’aumento delle concentrazioni atmosferiche di questo elemento ha molteplici implicazioni dato che promuove la formazione dell’aerosol ultrafine ed è coinvolto nel ciclo dell’ozono, con un effetto diretto sul bilancio energetico terrestre”.

 

 

 

 

 

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