Ambiente

Ambiente (573)


Frazione della variabilità interannuale di area bruciata spiegata dalla variabilità delle condizioni climatiche. Nelle regioni in cui tale frazione è più grande, il riscaldamento globale potrebbe aumentare significativamente l'impatto degli incendi
Uno studio internazionale che ha coinvolto l’Istituto di geoscienze e georisorse del Cnr mostra come il clima influenzi gli incendi boschivi e l'ampiezza delle aree bruciate, determinando la quantità di vegetazione secca che può alimentarli. Lo studio, frutto di venti anni di raccolta dati, è stato pubblicato sulla rivista Earth's Future: permetterà di sviluppare strategie più efficaci per prevenire e gestire gli incendi

Uno studio internazionale che ha coinvolto l’Istituto di geoscienze e georisorse del Consiglio nazionale delle ricerche di Pisa (Cnr-Igg), guidato dall’Università di Murcia in Spagna, ha permesso di ottenere, per la prima volta, una stima precisa di come i cambiamenti climatici influenzino l'estensione delle aree bruciate dagli incendi. Sebbene spesso siano le attività umane, intenzionali o accidentali, a innescare gli incendi, è il clima a determinarne la portata. Una volta divampate, le fiamme bruciano un’area che dipende dalle condizioni meteorologiche durante l’incendio, come la presenza di forte vento, ma anche da altri due fattori cruciali: la disponibilità di combustibile, come legna e vegetazione secca, e l'efficacia delle misure di prevenzione e controllo. Lo studio, condotto su scala globale, mette infatti in evidenza che lo stato e la quantità di combustibile sono strettamente legati alle condizioni climatiche dell'area interessata dagli incendi.

L'area craterica del vulcano Stromboli

 

 

I vulcani Stromboli ed Etna possono eruttare in modo più esplosivo a causa di minime variazioni nella composizione chimica del loro magma. Lo rivela uno studio pubblicato sulla rivista Nature Communications Earth & Environment, condotto da un team multidisciplinare dell'Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia, dell'Università degli Studi Roma Tre e del Consiglio nazionale delle ricerche

I vulcani Stromboli ed Etna possono eruttare in modo più esplosivo a causa di minime variazioni nella composizione chimica del loro magma. Lo rivela lo studio “Magma titanium and iron contents dictate crystallization timescales and rheological behaviour in basaltic volcanic systems” pubblicato sulla rivista Nature Communications Earth & Environment e condotto da un team multidisciplinare di ricercatori dell'Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (INGV), dell'Università degli Studi Roma Tre e del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr).



Fiumi e laghi inquinati in tutto il mondo ospitano una popolazione nuova e in evoluzione di microrganismi e batteri che si sono insediati sulla superficie delle plastiche. Secondo una ricerca pubblicata nel numero di agosto 2024 della rivista Water Research, questo nuovo ecosistema legato ai rifiuti, soprannominato "plastisfera", sta avendo molteplici conseguenze: dall'esaurimento dell'ossigeno nell'acqua, alla potenziale introduzione di patologie, e sta alterando la salute complessiva dei grandi sistemi fluviali.

"I fiumi offrono un'ampia gamma di servizi ecosistemici, dalla fornitura di acqua potabile, all'irrigazione per le colture, fino al sostegno alla pesca nelle acque interne, che centinaia di milioni di persone utilizzano come risorsa alimentare", dice Veronica Nava, ricercatrice dell'Università di Milano-Bicocca e autore principale dello studio. “Il nostro studio è uno dei primi ad andare oltre la descrizione dei microrganismi che crescono sui diversi materiali plastici che inquinano i corsi d’acqua sul nostro pianeta, e giunge a dimostrare che essi stanno cambiando il ciclo dei nutrienti e la qualità delle acque nel fiume, causando una drammatica riduzione dell’ossigeno nel sistema fluviale. Questi cambiamenti hanno un impatto sulla salute di un fiume e sulla sua capacità di sostenere la biodiversità all’interno dei suoi ecosistemi”.



La notizia del moltiplicarsi di esemplari di vermocane nei mari del Sud Italia sta suscitando preoccupazione per i potenziali danni che la specie può arrecare alle persone e alla fauna marina. Gli impatti della crisi climatica sul Mediterraneo, del resto, sono molteplici e l’espansione di specie termofile come il vermocane ne è un indicatore chiaro. D’altra parte, le evidenze scientifiche ci dicono anche che laddove gli ecosistemi sono protetti, e quindi in migliore salute, le specie termofile hanno impatti inferiori.

«Il Mediterraneo sta pagando un prezzo elevato per l’effetto dei cambiamenti climatici: diventa sempre più povero con grandi stravolgimenti della sua biodiversità», dichiara Valentina di Miccoli, campagna Mare di Greenpeace Italia. «Come dimostra il nostro progetto Mare Caldo, laddove esistono misure efficaci di tutela delle nostre acque queste resistono meglio agli impatti della crisi climatica, di cui la diffusione di specie come il vermocane è una delle prove più evidenti. Per questo abbiamo bisogno di aumentare la rete di aree marine protette in Italia».

 



Mercoledì 5 giugno è stato pubblicato sulla rivista Nature l’articolo Capturing carbon dioxide from air with charged-sorbents, frutto della collaborazione tra i ricercatori dell’Università di Torino e i ricercatori dell’Università di Cambridge (UK), dell’Università di Hong Kong (Cina) e dell’Università Cornell (US). Lo studio si è focalizzato su una delle nuove tecnologie più promettenti nella lotta contro il cambiamento climatico: la DAC (Direct Air Capture), la cattura diretta dell'anidride carbonica dall'aria. Si tratta di una tecnica innovativa che, anziché concentrarsi solo sulla riduzione delle emissioni alla fonte, mira a rimuovere direttamente l’anidride carbonica già presente nell'aria, indipendentemente dalla sua origine.


Per difendere i terreni dalle erbe infestanti e ridurre l’uso di erbicidi c'è una tecnica che consiste nell'inoculare i funghi simbiotici sui semi delle cover crops, cioè le colture usate per proteggere i terreni dall’erosione e aumentare la sostanza organica. Al fine di promuovere questa pratica, ricercatori e ricercatrici dei laboratori di Microbiologia dell’Università di Pisa hanno riprodotto nelle serre del Dipartimento di Scienze Agrarie, Alimentari e Agro-ambientali i funghi autoctoni di vari paesi europei da distribuire agli agricoltori. L’attività rientra nel progetto europeo GOOD (AGrOecOlogy for weeDs) che proprio a Pisa il 28 al 29 maggio scorsi ha riunito i vari partner per il primo meeting ufficiale.

Guidato dall’Alma Mater, il nuovo progetto di ricerca Radicals indaga le basi genetiche delle piante per renderle più resilienti e salvaguardare la loro produttività anche in condizioni avverse.
Il cambiamento climatico e il degrado degli ecosistemi agrari stanno minacciando l’agricoltura. Per migliorare la resistenza delle piante agli stress e dotarle di caratteristiche che ne salvaguardino la produttività anche in condizioni ambientali avverse, si deve partire dalle radici.


Questo l’obiettivo di Radicals, progetto di ricerca PRIN coordinato da Silvio Salvi, professore di Genetica agraria al Dipartimento di Scienze e Tecnologie agro-alimentari dell’Università di Bologna.
Oggetto dello studio è la radice della pianta, a partire da quella dell’orzo. Cereale tra i più importanti al mondo, prezioso per l’alimentazione animale ed umana, l’orzo è infatti dotato di un genoma più semplice dal punto di vista genetico rispetto, per esempio, al frumento, e questo lo rende particolarmente adatto come modello da cui partire.
"Focus del progetto è trovare i geni chiave che controllano le radici e la loro ramificazione, primaria e laterale, con l’obiettivo di creare, tramite tecniche di miglioramento genetico, nuove varietà più resilienti in ambienti che mutano", spiega Silvio Salvi. "Piante dotate di radici più lunghe sono infatti in grado di raggiungere, ad esempio, le falde acquifere profonde, mentre in ambienti desertici o semi-desertici, dove l’acqua non c’è neanche in profondità, le radici superficiali consentono di raccogliere velocemente e in maggiore quantità la poca acqua che cade con le piogge".

L'imbarcazione Bavaria 46 Malice usata per i campionamenti



E’ quanto emerge dai risultati da una ricerca basata su campionamenti in mare aperto e in alcuni siti costieri svolti dall’Istituto di ricerca sulle acque del Cnr in collaborazione con colleghi dell'Ecole Polytechnique di Losanna e dell’Università del Texas. Lo studio, pubblicato sulla rivista Marine Pollution Bullettin, ha rivelato che i frammenti di plastica offrono un substrato per la crescita di comunità batteriche anche patogene

La presenza di microplastiche nel Tirreno favorisce lo spread di batteri, alcuni dei quali pericolosi per gli esseri umani e gli animali. E’ quanto emerge risultati di un’attività di ricerca svolta nel 2019 da un team dell’Istituto di ricerca sulle acque del Consiglio nazionale delle ricerche di Verbania (Cnr-Irsa) in collaborazione con colleghi dell’Ecole Polytechnique Fédérale di Losanna (Svizzera) e della statunitense Texas A&M University, condotta sia in mare aperto – nelle acque di Toscana e Corsica- sia nei siti costieri di Forte dei Marmi (Lucca) e delle Cinque Terre (La Spezia).

 


Studio dell’Università di Padova propone un nuovo modello statistico per stimare la resilienza dei sistemi naturali ai cambiamenti irreversibili.
Quanto può sopportare un ecosistema prima di cambiare in maniera irreversibile? Cosa si può fare – se si può fare – per prevenire o mitigare gli effetti delle attività antropiche?
L’impatto elevato e sinergico delle pressioni umane può portare gli ecosistemi a subire dei “cambiamenti di regime”, ossia delle variazioni drastiche, inaspettate e spesso irreversibili: per contrastare i cambiamenti climatici globali è quindi necessario favorire e quantificare la resilienza degli ecosistemi in modo da preservare gli importanti benefici che ci forniscono, capire e anticipare i cambiamenti per gestire le nostre risorse al meglio.


Il cambiamento climatico sta alterando le specie animali. A dimostrarlo una ricerca dell’Università Statale di Milano in collaborazione con l’Università di Losanna che ha preso in esame oltre 5000 esemplari di barbagianni conservati nei musei scientifici di tutto il mondo a partire dal 1900. Lo studio è stato pubblicato sulla rivista Journal of Biogeography.
Più piccolo e con il piumaggio di colore diverso: così è cambiato il barbagianni negli ultimi decenni. La causa? Il clima più caldo. A mostrarlo uno studio del Dipartimento di Scienze e Politiche Ambientali dell’Università Statale di Milano in collaborazione con l’Università di Losanna e pubblicato sulla rivista Journal of Biogeography.

 

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