La prima esplorazione delle profondità della Grotta di Veja (Verona) ha portato alla luce più di 200 resti di orso, lupo e tasso oltre a tracce di frequentazione umana negli ultimi 10-12mila anni.

La grotta si trova a Nord di Verona, nel Parco della Lessinia. È una cavità carsica che ha avuto origine in un periodo più recente di 38 milioni di anni fa per l’azione di acque ipogee. Finora studiata parzialmente, è in grado di raccontare molto dei millenni di convivenza tra uomo e fauna e dell’ambiente dell’area prima, durante e dopo l’ultimo evento glaciale.

Le attività di ricerca, riavviate nel 2021 grazie all’Università Ca’ Foscari Venezia, sono entrate nel vivo con una campagna appena conclusa che ha coinvolto 8 operatori che si sono alternati durante due settimane per scavo, documentazione e vaglio del materiale.


Un gruppo internazionale di ricerca è riuscito per la prima volta a sequenziare il genoma di 13 neandertaliani vissuti negli stessi luoghi e nello stesso periodo, più di 50.000 anni fa, tra cui anche un padre e la sua figlia adolescente. I risultati – pubblicati su Nature – ci offrono uno sguardo inedito sull'organizzazione sociale di questi gruppi umani e suggeriscono come le diverse comunità fossero collegate tra loro attraverso la migrazione femminile.
Per la prima volta, un gruppo internazionale di studiosi è riuscito a gettare uno sguardo sull'organizzazione sociale di una comunità neandertaliana: 13 individui vissuti in Siberia più di 50.000 anni fa, tra cui un padre con una figlia adolescente e un giovane ragazzo con una parente adulta, forse una cugina, una zia o una nonna. L’analisi dei loro genomi ha mostrato che questi Neandertal erano parte un piccolo gruppo di parenti stretti, composto da 10-20 membri, e che comunità di questo tipo erano collegate tra loro principalmente attraverso la migrazione femminile.
Lo studio – pubblicato su Nature – è stato guidato da ricercatori dell'Istituto Max Planck per l'Antropologia Evolutiva, a cui fa capo il neo premio Nobel per la Medicina Svante Pääbo. Unica autrice italiana è Sahra Talamo, professoressa dell’Università di Bologna e direttrice del laboratorio di radiocarbonio BRAVHO (Bologna Radiocarbon Laboratory Devoted to Human Evolution).


LA PRIMA COMUNITÀ NEANDERTALIANA


Le analisi genetiche realizzate negli ultimi anni su resti di neandertaliani hanno permesso di ottenere importanti indicazioni sulla storia di questa popolazione umana e sulle loro relazioni con gli umani moderni. Fino ad oggi, però, sapevamo molto poco sull’organizzazione sociale delle loro comunità. Per esplorare questo aspetto ancora nebuloso dei nostri lontani cugini, gli studiosi hanno quindi rivolto la loro attenzione sulla Siberia meridionale: una regione che in passato si è dimostrata molto fruttuosa per la ricerca sul DNA antico. In particolare, le indagini si
sono concentrate in due grotte nella regione dei monti Altai: Chagyrskaya e Okladnikov.

In questi due siti, che sono stati abitati brevemente circa 54.000 anni fa, gli studiosi sono riusciti a recuperare e sequenziare con successo il DNA di 17 resti neandertaliani: l’insieme più alto di resti di questo tipo mai sequenziato per un singolo studio. I risultati mostrano che i resti appartengono a 13 individui neandertaliani: 7 uomini e 6 donne, di cui 8 adulti e 5 tra bambini e giovani adolescenti. L’analisi del DNA ha rivelato che nel gruppo di individui c’erano anche un padre neandertaliano e sua figlia adolescente e una coppia di parenti di secondo grado composta da un ragazzo e una donna adulta, forse una cugina, una zia o una nonna.
Nel DNA mitocondriale dei resti analizzati sono state trovate inoltre diverse eteroplasmie condivise: un tipo particolare di variante genetica che persiste solo per un piccolo numero di generazioni. Secondo gli studiosi, la presenza di eteroplasmie in combinazione con evidenze di individui imparentati tra loro suggerisce fortemente che questi Neandertal siano vissuti - e morti - più o meno nello stesso periodo. “È un risultato davvero sorprendente ed emozionante: il fatto che questi individui siano vissuti nello stesso periodo significa che probabilmente provenivano dalla stessa comunità sociale”, afferma Laurits Skov, dell'Istituto Max Planck per l'Antropologia Evolutiva e primo autore dello studio. “Per la prima volta, quindi, è stato possibile utilizzare gli strumenti della genetica per studiare l'organizzazione sociale di una comunità di Neandertal".


INTRECCI DI COMUNITÀ E MIGRAZIONE FEMMINILE
Un'altra scoperta sorprendente emersa dallo studio è che all’interno di questa comunità neandertaliana la diversità genetica era estremamente bassa: un dato che suggerisce si trattasse di un gruppo composto da 10-20 individui. Si tratta di dimensioni molto inferiori a quelle registrate per qualsiasi comunità umana antica o attuale, e più simili alle dimensioni dei gruppi di specie in via di estinzione. Tuttavia, i Neandertal non vivevano in comunità completamente isolate. Confrontando la diversità genetica del cromosoma Y (ereditato da padre a figlio) con quella del DNA mitocondriale (ereditato dalle madri), infatti, è stato possibile stabilire che queste comunità neandertaliane erano collegate principalmente dalla migrazione femminile. “Questi risultati sorprendenti sull’evoluzione delle migrazioni devono farci riflettere sul ruolo della donna sin dall’inizio della nostra affascinante storia evolutiva: una donna che è sempre stata dotata della capacità di innovare, di trovare risorse, soluzioni, e di ‘fare rete’”, commenta la professoressa dell’Università di Bologna Sahra Talamo, che ha realizzato datazioni al radiocarbonio di alcuni dei neandertaliani della grotta di Chagyrskaya.


I NEANDERTAL PIÙ ORIENTALI

Situata ai piedi dei monti Altai, in Siberia, la grotta Chagyrskaya è stata scavata negli ultimi 14 anni dai ricercatori dell'Istituto di archeologia ed etnografia dell'Accademia delle scienze russa. Oltre a diverse centinaia di migliaia di utensili in pietra e ossa di animali, gli studiosi hanno recuperato più di 80 frammenti di ossa e denti di Neandertal: uno dei più grandi assemblaggi fossili di questi esseri umani rinvenuti a livello mondiale.
I Neandertal di Chagyrskaya e della vicina grotta di Okladnikov cacciavano stambecchi, cavalli, bisonti e altri animali che migravano attraverso le valli fluviali della regione. Le materie prime utilizzate per costruire i loro utensili di pietra venivano raccolte anche a decine di chilometri di distanza: proprio la presenza di queste materie prime sia nella grotta di Chagyrskaya che in quella di Okladnikov supporta i dati genetici che indicano come i gruppi che abitavano queste località fossero strettamente collegati.
"I risultati che abbiamo ottenuto ci permettono di tracciare un quadro concreto di come poteva essere una comunità neandertaliana", afferma Benjamin Peter, dell'Istituto Max Planck per l'Antropologia Evolutiva, tra i coordinatori dello studio. "Mettendo insieme tutti questi elementi abbiamo un’immagine molto più umana dei Neandertal". Studi precedenti su un alluce fossile proveniente dalla famosa grotta di Denisova (che si trova a meno di 100 chilometri di distanza) avevano dimostrato che i Neandertal hanno abitato i monti Altai anche in epoche molto precedenti, circa 120.000 anni fa. Si tratta della regione più orientale in cui siano mai stati rinvenuti resti neandertaliani. I Neandertal rinvenuti nelle grotte Chagyrskaya e Okladnikov non sono però discendenti di questi gruppi precedenti. I dati genetici mostrano infatti una maggiore vicinanza con i Neandertal europei. Un dato supportato anche dal materiale archeologico: gli utensili in pietra della grotta Chagyrskaya sono infatti più simili alla cosiddetta cultura micocchiana, conosciuta anche in Germania e nell'Europa orientale.

 

I PROTAGONISTI DELLO STUDIO


Lo studio – pubblicato su Nature con il titolo “Genetic insights into the social organization of Neanderthals” – è stato realizzato da un ampio gruppo internazionale di ricerca guidato da dal Max Planck Institute for Evolutionary Anthropology (Germania), diretto dal premio Nobel per la Medicina Svante Pääbo.

Unica italiana del gruppo di ricerca è Sahra Talamo, professoressa al Dipartimento di Chimica "Giacomo Ciamician" dell’Università di Bologna e direttrice del nuovo laboratorio di radiocarbonio BRAVHO (Bologna Radiocarbon laboratory devoted to Human Evolution). Attiva anche presso il Max Planck Institute for Evolutionary Anthropology, la professoressa Talamo è Principal Investigator di vari progetti, tra cui il progetto ERC RESOLUTION (Radiocarbon, tree rings, and solar variability provide the accurate time scale for human evolution and geoscience - ERC Starting Grant n. 803147) e due progetti nazionali: il PRIN DYNASTY (Neanderthals dynamic pathway and resilience in central Europe through the chronometric sustainability), e il progetto FARE ricerca in Italia EURHOPE (Evaluate the precision of time in Human Evolution adopting spectrometric methods for archaeological bones). Tutti progetti di ricerca che portano ad evidenziare l’importanza delle datazioni al radiocarbonio per fare luce sui periodi chiave della preistoria europea.

 

 


Pubblicato su Scientific Reports, lo studio su un sito sommerso nel lago di Bracciano


Un falcetto per tagliare il grano proveniente da La Marmotta, un sito sommerso nel lago Bracciano, testimonia il probabile uso di piante con effetti stupefacenti già in epoca preistorica. La notizia arriva da uno studio pubblicato su Scientific Reports e grazie ad un progetto diretto da ricercatori dell’Università di Pisa, del Museo delle Civiltà di Roma e della Escuela Española de Historia y Arqueología en Roma.

L’analisi ha riguardato tre falcetti eccezionalmente conservati e completi di denti in selce e di mastice utilizzato per fissare le lame. Dall’esame è risultato che i manici erano fatti in legno di quercia e di una pianta della famiglia Maloideae (probabilmente un albero da frutto), mentre per il mastice è stata usata resina di pino mescolata con polvere di carbone. Lo studio delle usure presenti sui denti in selce ha poi confermato che gli strumenti furono principalmente usati per tagliare grano domestico, probabilmente raso suolo, per poter raccogliere l’interezza della paglia.


Un recente articolo, pubblicato sulla rivista Evolutionary Anthropology, a firma di docenti dalla Sapienza e dell’Università di Padova, si inserisce nell’attuale dibattito sull’origine evolutiva di Homo sapiens. La forma globulare di crani umani ritrovati in Etiopia, e comune a tutta l’umanità moderna, suggerisce che la specie sia nata da un piccolo gruppo isolato
Le ipotesi sull’origine di Homo sapiens sono sempre di grande interesse. L’ultimo significativo contributo al tema è fornito dall’articolo Pan‐Africanism vs. single‐origin of Homo sapiens: putting the debate in the light of evolutionary biology, pubblicato sulla rivista Evolutionary Anthropology, a firma di Giorgio Manzi, paleoantropologo del Dipartimento di Biologia ambientale della Sapienza, e di due docenti dell’università di Padova, la filosofa della scienza Andra Meneganzin e lo storico e filosofo della biologia Telmo Pievani.


Gli ultimi scavi archeologici presso il sito preistorico ligure di Arma Veirana, condotti da un team internazionale di cui fanno parte ricercatori della Sapienza, forniscono prove riguardo l’utilizzo del marsupio per neonati già 10.000 anni fa
I marsupi portabebè esistevano già nell’antichità. A confermarlo gli ultimi scavi archeologici condotti presso il sito preistorico di Arma Veirana in Liguria, guidati da Claudine Gravel-Miguel (Arizona State University - ASU) in collaborazione con Emanuela Cristiani e Andrea Zupancich del Dipartimento di Scienze Odontostomatologiche e Maxillo Facciali della Sapienza (DANTE - Diet and Ancient Technology laboratory).

Le ricerche, confluite in un recente articolo pubblicato sul Journal of Archaeological Method and Theory, forniscono prove riguardo l’uso di marsupi per neonati risalenti a circa 10.000 anni fa.


La Sapienza è nel team di ricerca internazionale che sta completando l’analisi dei dati genomici delle popolazioni della regione geografica nota come “Arco meridionale”. I risultati di questi studi, confluiti in tre articoli pubblicati sulla rivista Science, gettano nuova luce sui percorsi di vita degli abitanti delle società del passato e sulla diffusione e diversificazione delle loro lingue
Tre articoli, pubblicati simultaneamente sulla rivista Science, riportano i dati genomici di 727 individui antichi provenienti da contesti archeologici datati agli ultimi 11.000 anni che confermano consolidate ipotesi archeologiche, genetiche e linguistiche e permettono di colmare le principali lacune nella documentazione paleogenetica della regione definita come “Arco meridionale”.

Si tratta dell’area geografica che si estende dal Caucaso e dal Levante attraverso l’Anatolia e l’Egeo fino ai Balcani, formando un ponte tra Europa e Asia, dove sono emerse e fiorite le prime civiltà e le prime culture umane che hanno esercitato un profondo impatto sulla civiltà umana nel suo complesso.

 Gli ultimi studi condotti presso il sito preistorico di Grotta Romanelli, realizzati da Sapienza, Università di Torino, Statale di Milano e Istituto di geologia ambientale e geoingegneria (Igag) del Cnr, hanno permesso di retrodatare i livelli basali del deposito di grotta a circa 350mila anni fa.

 Le origini del sito preistorico di Grotta Romanelli in Puglia sono molto più antiche di quanto i ricercatori hanno ritenuto finora. Gli ultimi rilevamenti geologici e le attività di scavo infatti hanno permesso di ricostruire l’evoluzione della grotta, che ha iniziato a riempirsi molto tempo prima di quanto creduto finora, con modalità simili probabilmente a quelle di altre grotte del tratto di costa salentino in esame. Uno studio realizzato da Sapienza, Università di Torino, Statale di Milano e Istituto di geologia ambientale e geoingegneria del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr-Igag), appena pubblicato sulla rivista Nature-Scientific Reports, dimostra che uomini e animali hanno iniziato a lasciare testimonianza della loro presenza nei sedimenti della grotta molto prima di quanto indicato dalle ricerche passate.


 

Lo studio, effettuato da un team italo-irlandese guidato da Valentina Rossi (University College Cork, Irlanda) e da Giorgio Carnevale di UniTo.

Lo studio, effettuato da un team italo-irlandese guidato da Valentina Rossi della University College Cork, Irlanda e da Giorgio Carnevale dell’Università di Torino, è stato pubblicato sulla prestigiosa rivista scientifica “Palaeontology”.


Uno studio multidisciplinare firmato dalle Università Sapienza, Bologna e Parma fornisce la descrizione più completa di un campione di lupo del Medioevo in Italia
È stato pubblicato nei giorni scorsi un importante articolo sullo studio di un cranio fossile di lupo (Canis lupus), rinvenuto nel settembre 2018 nel Fiume Po da Davide Persico, Professore associato presso l’Università di Parma e autore senior che ha diretto lo studio.

Il fossile, completo e in ottimo stato di conservazione, è esposto nel Museo Paleoantropologico del Po di San Daniele Po (CR) ed è già stato oggetto di uno studio paleogenetico nel 2019. Nel recente articolo scientifico però, viene presentata la sua prima descrizione completa basata su un approccio multidisciplinare.

Il riconoscimento e la prima classificazione tassonomica dell’esemplare, nonché la determinazione dell’età anagrafica e del sesso, sono state eseguite attraverso un’analisi biometrica svolta presso il Dipartimento di Scienze Chimiche della Vita e della Sostenibilità ambientale dell’Università di Parma.

 

L’Università degli Studi di Milano, in collaborazione con l’Ufficio Beni Archeologici di Bolzano, ha studiato i resti umani cremati provenienti da un luogo di cremazione della fine dell’età del Bronzo (1150-950 ca a.C.), che rappresenta un tipo non ancora documentato di luogo di culto funerario. La pubblicazione su PLOS ONE.


Nel sito archeologico di Salorno (BZ) è stata ritrovata un’area di cremazione che rappresenta un unicum per quantità di resti bruciati e che potrebbe anche rivelare una nuova modalità funeraria, non comune nell’età del Bronzo. La ricerca, pubblicata su PLOS ONE è stata realizzata da un team del Dipartimento di Beni Culturali e Ambientali dell’Università degli Studi di Milano, in collaborazione con l’Ufficio Beni Archeologici di Bolzano.

 

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