I gelada, scimmie che vivono sugli altopiani etiopi, sbadigliano vocalizzando, creando delle sinfonie che si propagano tra i gruppi. Il fenomeno è stato osservato da un gruppo di etologi ed etologhe delle Università di Pisa e di Rennes che ha lavorato due mesi nello NaturZoo di Rheine e ha poi pubblicato i risultati della ricerca svolta sulla rivista Scientific Reports.

Il team composto da Luca Pedruzzi, dottorando fra Pisa e Rennes, Martina Francesconi ed Elisabetta Palagi, rispettivamente dottoranda e professoressa dell’Ateneo Pisano, e da Alban Lemasson, professore a Rennes, ha evidenziato che le particolari vocalizzazioni dei gelada associate agli sbadigli avrebbero un ruolo nel mantenere i legami sociali, anche in situazioni in cui il contatto visivo risulta impossibile. Gli animali infatti sbadigliano al solo sentire lo sbadiglio di altri esemplari, e il suono sembra essere particolarmente contagioso quando emesso da maschi dello stesso gruppo, individui cioè con un “peso sociale” maggiore.


La ricerca di un gruppo di paleontologi del Dipartimento di Scienze della Terra della Sapienza ha gettato nuova luce sulla diffusione in Europa dell’ippopotamo comune largamente presente in tutto il continente durante il Pleistocene. Lo studio, pubblicato su PLOS ONE, ha rivelato che questa specie comparve in Europa circa 500 mila anni fa, probabilmente in seguito a intensi cambiamenti climatici e ambientali.


C’è stato un tempo in cui il territorio di Roma fu popolato da elefanti, ippopotami, rinoceronti e iene, testimonianza di ecosistemi scomparsi e condizioni climatiche ben differenti da quelle attuali. Resti fossili di mammiferi sono conosciuti fin dalla fine dell’Ottocento, oggi patrimonio culturale oltre che scientifico di diversi musei del territorio laziale, fra cui il Museo universitario di Scienze della Terra della Sapienza Università di Roma (MUST).


Uno studio, condotto da un team internazionale coordinato da Sapienza Università di Roma e dall’Istituto di biologia e patologia molecolari del Consiglio nazionale delle ricerche, mostra un’affinità genetica tra Fulani e individui del Marocco risalenti al Neolitico. I risultati, pubblicati sulla rivista Current Biology, individuano nei pastori nomadi Fulani i discendenti di una antica popolazione “pan-Sahariana” che si è poi definitivamente frammentata e divisa con la desertificazione della regione africana
Un team di ricerca internazionale, coordinato dalla Sapienza e dal Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr-Ibpm) di Roma, ha condotto uno studio che fa luce sul ruolo dei cambiamenti climatici del Sahara.

Fig. Conglomerati lavorati dal vento e dall'acqua del deserto di Ouarzazate



Il Dr. J. William Schopf, autorevole ricercatore presso il Center for the Study of Evolution and the Origin of Life dell'Università della California, ha recentemente condotto un'analisi approfondita delle prove fossili relative alla vita durante l'Archeano, il periodo più antico della storia terrestre. Il suo studio, intitolato "Fossil evidence of Archaean life," e pubblicato su PubMed, si propone di esaminare in modo critico le cronologie di diverse linee procariotiche, mettendo in discussione le prove comunemente accettate datate a circa 3500 milioni di anni fa.
L'analisi del Dr. Schopf solleva interrogativi sulla validità di alcune evidenze ampiamente riconosciute, come stromatoliti, microfossili, biomarcatori molecolari e dati isotopici di carbonio e zolfo. Questi dati sono generalmente collocati attorno a 3500 milioni di anni fa, ma alcuni studiosi suggeriscono che la presenza di vita sulla Terra inizi solo con i fossili batterici della formazione Gunflint, risalenti a 1,9 miliardi di anni fa. Questo solleva incertezze sulla presunta vita nei primi 2,0-2,5 miliardi di anni della storia terrestre.
Il contributo originale del Dr. Schopf aveva l'intento di esplorare la cronologia dell'origine di diverse linee procariontiche, ma a causa dei dubbi sollevati sulla validità delle prove stesse, il testo si focalizza su una domanda più fondamentale: quali sono le prove dell'esistenza della vita durante l'Eone dell'Archeano, prima di 2500 milioni di anni fa?



Recentemente, un team di ricercatori ha identificato organismi che sfidano la natura e il tempo, dimostrando che la vita può persistere in condizioni estreme per millenni. Questi incredibili organismi sono i nematodi, vermi microscopici che hanno dimostrato la loro abilità di sopravvivere in condizioni proibitive per la maggior parte degli esseri viventi.
Risvegliati dal permafrost siberiano, questi nematodi, appartenenti ai generi Panagrolaimus e Plectus, erano rimasti in uno stato di "criptobiosi" per un lunghissimo periodo. La criptobiosi è uno stato di animazione sospesa in cui l'organismo rallenta il suo metabolismo a un livello così basso da renderne possibile la sopravvivenza in condizioni avverse come la mancanza di acqua, l'assenza di ossigeno, temperature estreme, congelamento e salinità elevata.

 

Nella pubblicazione di giugno-settembre dell'anno corrente sulla Revista Brasileira de Paleontologia, è stato descritto uno studio particolarmente interessante "Coneroichnus marinus ichnogenus et ichnospecies nov., a fossil trackway of marine reptile in the Maiolica formation (upper jurassic-lower cretaceous from mount Conero, Marche, Italy" di Luca Natali dell'Istituto Italiano di Paleontologia Umana e Giuseppe Leonardi dell'Istituto Cavanis, Dorsoduro, Venezia) riguardante una scoperta paleontologica unica: Coneroichnus marinus nuovo icnogenere e icnospecie. Questo raro icnofossile (traccia fossile) è costituito da undici impronte in micrite calcarea, risalenti alla formazione della Maiolica (Giurassico Superiore-Cretaceo Inferiore), rinvenute sul Monte Conero, nella provincia di Ancona.

 


Il ritrovamento della mandibola di un bambino di 3 anni, risalente a 2 milioni di anni fa, ha consentito di retrodatare significativamente la comparsa di Homo erectus. La scoperta è stata effettuata in Etiopia dalla missione archeologica guidata dalla Sapienza. I risultati della ricerca sono pubblicati su Science
L'area archeologica di Melka Kunture, che si estende sull'altopiano etiopico a circa 2.000m di altitudine, si inserisce a pieno diritto fra i poli centrali per la ricostruzione delle fasi antiche dell’evoluzione umana insieme alle grotte del Sudafrica e ai siti della Rift Vally in Africa orientale.


Team internazionale pubblica lo studio Ondate fredde alla fine del Cretaceo, e poi l’asteroide sulla rivista «Science Adavanced» dove emerge uno scenario in cui brevi inverni vulcanici sovrimposti a una tendenza globale al riscaldamento potrebbero aver deteriorato gli ecosistemi prima dell’asteroide di fine Cretaceo.
La fine dell’era mesozoica, 66 milioni di anni fa, è nota per l’estinzione di massa che colpì i dinosauri, e moltissime altre specie. Due le cause di cui si discute da decenni nella comunità scientifica. L’impatto di un asteroide, detto Chixkulub, di cui è oggi preservato il cratere in Yucatan (Messico), e l’eruzione di un volume anomalo di basalti continentali, detti del Deccan, in un’area corrispondente all’odierna India. In un articolo pubblicato sulla prestigiosa rivista «Science Advances», un team internazionale di geologi e geochimici aiuta a definire meglio il ruolo del vulcanismo, attraverso la ricostruzione dei volumi di gas vulcanici liberati. La ricerca è stata condotta da un team guidato da Sara Callegaro dell’Università di Oslo, di cui fanno parte anche ricercatori delle Università di Padova, Trieste e Napoli, ma anche della McGill (Montreal, Canada), dell’Università della California (Berkeley, USA) e del museo di Storia Naturale di Stoccolma (Svezia).


Uno studio internazionale, coordinato dalla Sapienza, ha sequenziato 30 genomi di popolazioni antiche di Kerkouane (Tunisia), Sant’Imbenia (Sardegna) e Tarquinia (Italia centrale), per studiare la mobilità all’interno del Mediterraneo centrale. I risultati sono stati pubblicati su Nature Ecology & Evolution.
L'Età del Ferro è stato un periodo dinamico che ha visto l'espansione delle colonie greche e fenicie e la crescita di Cartagine come potenza marittima dominante del Mediterraneo, ancor prima della nascita di Roma. La maggiore facilità dei viaggi a lunga distanza grazie ai progressi della navigazione a vela e marittima avevano favorito gli spostamenti e determinato nuove reti di interazione per il commercio, la colonizzazione e i conflitti.

L’Università di Pisa nel team internazionale che ha condotto la ricerca pubblicata sulla prestigiosa rivista PNAS. Fra i siti anche Livorno che dal punto di vista geologico fa parte dell’Appennino Settentrionale.


Scoperte sull’Appennino le evidenze dei più antichi pesci abissali al mondo. Il ritrovamento delle tracce fossili retrodata la comparsa di questi vertebrati di 80 milioni di anni, al tempo dei dinosauri. La notizia arriva da una ricerca condotta da un gruppo internazionale di scienziati guidato dal paleontologo italiano Andrea Baucon e di cui fa parte il professore Luca Pandolfi del Dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Pisa. Lo studio è stato pubblicato sulla prestigiosa rivista PNAS - Proceedings of the National Academy of Sciences.

"Quando abbiamo trovato questi strani fossili in tre siti paleontologici nei dintorni di Piacenza, Modena e Livorno (che dal punto di vista geologico fa parte dell’Appennino Settentrionale), non potevamo credere ai nostri occhi", racconta il professore Pandolfi.

 

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