Pigmenti naturali e inibizione dell'aggregazione di peptidi B-amiloidi implicati nel Morbo di Alzheimer

Abstract
Understanding the molecular process at the basis of polymerization processes of neurotoxic beta-amyloid can give important contributions for designing new therapies for Alzhemier Disease. In this perspective, we have performed an in vitro study of the effects on B-amyloid fibrillogenesis of the natural pigment hypericin extracted from Hypericum perforatum (St. John’s worth). Our results show that, thanks to its structural characteristics and peculiar spectroscopic features, hypericin can be easily used to in vitro monitor the appearance of early aggregation states of B-amyloid peptides during the polymerization process and, more importantly, that hypericin can significantly affect and interfere with the early stages of polymerization process, playing the role of an effective aggregation inhibitor.


La comprensione dei processi molecolari che sono alla base dei processi di polimerizzazione dei peptidi B-amiloidi può dare importanti contributi per mettere a punto nuove terapie per il Morbo di Alzheimer. In questa prospettiva abbiamo eseguito uno studio in vitro degli effetti del pigmento naturale ipericina, estratto dall’Hypericum perforatum (erba di San Giovanni), sulla fibrillogenesi di questi peptidi. I nostri risultati mostrano che, grazie alle sue caratteristiche strutturali e peculiarità spettroscopiche, l’ipericina può facilmente essere usata in vitro per rivelare la comparsa dei primi stadi di aggregazione dei peptidi beta-amiloidi e, fatto ben più importante, per perturbare tale processo, giocando il ruolo di un efficiente inibitore della fibrillogenesi

Iperico (tratta da Scienzaonline: http://www.scienzaonline.com/botanica/hypericum.html)
Immagine al microscopio di una ghiandola contenente ipericina tratta da http://whyfiles.org/150alt_med2/5.html.


L'ipericina è conosciuta per lo più perché è una sostanza contenuta nell’iperico o erba di San Giovanni, utilizzata fin dall'antichità per le sue molteplici proprietà fitoterapiche e ancora oggi studiata e impiegata come antidepressivo "naturale".Negli ultimi anni, le ricerche sull'ipericina hanno riscosso un crescente interesse da parte della comunità scientifica internazionale anche per altre potenziali applicazioni cliniche che questa molecola sembra avere come agente fotodinamico, antivirale e antitumorale e per il suo uso in fotodiagnostica. Nel 2001 la rivista scientifica internazionale Photochemistry and Photobiology dedicò in un suo volume un intero simposio all'ipericina e ai suoi analoghi, pubblicando ben 17 lavori di ricerca condotti da gruppi di diversa nazionalità.
Perchè l'ipericina è così interessante?
Per cercare di dare una risposta, bisogna partire dalla sua struttura chimica.

Struttura chimica dell'ipericina

È una molecola aromatica policiclica in grado di assorbire luce visibile ed è per questo che viene definita un pigmento o più tecnicamente un cromoforo. L'interazione della luce con questa molecola innesca una serie di processi molecolari che portano alla produzione di specie reattive dell'ossigeno e radicali liberi in grado di attaccare e alterare macromolecole biologiche come DNA, proteine, lipidi di membrana e molte altre (reazioni fotodinamiche). Ed è per questo che l'ipericina viene considerata un efficace fotosensibilizzante la cui attività di danno biologico è intensamente studiata soprattutto per cercare di indirizzarla contro batteri, virus, cellule neoplastiche, causa di gravi patologie.
Come molte altre molecole aromatiche, a seguito dell'assorbimento di luce, l'ipericina può fluorescere, cioè emettere luce a sua volta, il che le conferisce il caratteristico bel colore rosso vermiglio. Le sue proprietà fluorescenti rendono l'ipericina particolarmente interessante dal punto di vista biologico in quanto permettono di sfruttarla come"marcatore" luminoso di strutture e processi biologici, con potenziali ricadute applicative nel settore della fotodiagnostica. Per poter fluorescere, l'ipericina, però, deve essere in forma monomerica come quando è disciolta in solventi organici quali l'acetone, l'etanolo, il metanolo ed altri ancora, mentre in soluzioni acquose non è solubile e forma aggregati polidispersi che non fluorescono. In questo ultimo caso, l'ipericina può disaggregarsi e quindi passare alla forma monomerica se nella soluzione acquosa sono presenti macromolecole biologiche, quali proteine, acidi nucleici, frammenti di membrana plasmatica, con cui interagisce non covalentemente formando complessi fluorescenti.

Il nostro gruppo di ricerca si dedica da molti anni allo studio delle proprietà spettroscopiche (assorbimento e fluorescenza) dell'ipericina e di pigmenti naturali simili e meno noti come le blefarismine e le stentorine le quali, oltre ad essere dei fotosensibilizzanti anch'essi fluorescenti, svolgono il ruolo di fotorecettori per il controllo della locomozione cellulare di alcune specie di protozoi ciliati.

Protozoo ciliato Blepharisma japonicum contenente un pigmento ipericino-simile, la blefarismina fluorescente nel rosso.

Nelle nostre ricerche di base sui processi molecolari fotoindotti in questi pigmenti ci ha incuriosito capire se l'ipericina potesse essere utilizzata come sonda fluorescente per monitorare processi di aggregazione proteica patologica come quelli implicati nel Morbo di Alzheimer.
Negli ultimi anni lo studio del “misfolding” e dell’aggregazione delle proteine sta suscitando un sempre maggior interesse non solo nel campo della chimica delle proteine, ma anche in quello della medicina molecolare. Molti disordini sistemici e neurodegenerativi, infatti, sono associati ad aberrazioni conformazionali proteiche e caratterizzati dall’accumulo di aggregati intra- ed extra-cellulari di proteine. Il Morbo di Alzheimer, il Morbo di Parkinson, la sclerosi amiotrofica laterale, le encefalopatie spongiformi e le malattie da catene estese di poliQ (es. Corea di Huntington), sono tutti esempi di patologie neurodegenerative caratterizzate dall’accumulo di proteine diverse sottoforma di fibrille amiloidi. In generale, nel decorso di queste malattie, avviene un decisivo processo di modifica strutturale in una proteina specifica che può acquisire proprietà tossiche e/o promuovere la formazione di aggregati tossici.
Il Morbo di Alzheimer viene oggi definito come un disordine neurodegenerativo progressivo, caratterizzato da perdita di memoria e cambiamenti nella personalità. Poiché le cause della perdita di memoria possono essere diverse, nel cervello dei pazienti affetti devono essere presenti in notevoli quantità i “marker” patologici dell’Alzheimer, cioè aggregati fibrillari di peptidi β-amiloidi (placche amiloidi o senili) e grovigli fibrillari intracellulari della proteina tau (tangles). Tau è una proteina neuronale accessoria della tubulina che si lega ai microtubuli organizzando e stabilizzando la struttura interna dei neuroni, ma, in condizioni patologiche, a seguito di una iperfosforilazione, è rilasciata nel citoplasma dove può andare incontro ad aggregazione.
Le placche amiloidi sono costituite principalmente da peptidi lunghi 40 aminoacidi, i peptidi β-amiloidi 1-40. Una frazione minore è costituita da peptidi β-amiloidi più lunghi di due aminoacidi, i peptidi β-amiloidi 1-42. I peptidi β-amiloidi derivano dal taglio sequenziale di una proteina transmembrana, proteina precursore amiloide (APP), da parte di due enzimi: la β- e la γ-secretasi.

Rappresentazione schematica di un confronto fra neuroni sani e neuroni con le caratteristiche patologiche del Morbo di Alzheimer(http://w3.uokhsc.edu)

I peptidi B-amiloidi derivano dal taglio sequenziale della proteina precursore amiloide (APP) da parte di due enzimi: la B- e la Y-secretasi (www.alzheimers.org).

 

Nonostante l'impegno profuso dalla comunità scientifica, non è ancora chiaro se le placche e i grovigli siano le cause primarie della neurodegenerazione oppure gli effetti della morte neuronale. Prove significative che vanno a sostegno dell'ipotesi che sia il peptide B-amiloide il principale responsabile nella generazione della malattia di Alzheimer sono arrivate da studi genetici su famiglie che hanno un rischio elevato di contrarre la malattia. Negli anni 90, sono state scoperte mutazioni in tre geni noti come causa dell'Alzheimer precoce: uno codifica per l'APP e gli altri per componenti di un enzima implicato nella produzione del peptide B-amiloide.
Numerose ricerche hanno, tuttavia, dimostrato che i β-amiloidi, in forma solubile, sono rilasciati costitutivamente dalle cellule in condizioni normali; nonostante la loro attività citotossica a concentrazioni micromolari sia ormai appurata, per concentrazioni più basse, dell’ordine del picomolare e del nanomolare, diversi studi hanno rivelato un potenziale ruolo fisiologico correlato alla plasticità e alla sopravvivenza neuronale. Per lungo tempo le fibrille amiloidi, che rappresentano il risultato finale del processo di aggregazione proteica, sono state considerate le principali responsabili della patologia neurodegenerativa. Numerosi studi sembrano oggi convergere sull’idea che la tossicità sia invece imputabile ad aggregati più piccoli, oligomeri, presenti nelle fasi iniziali e intermedie del processo di formazione delle fibrille: tali oligomeri "pre-fibrillari", solubili e instabili, hanno una spiccata tendenza ad interagire con macromolecole biologiche e strutture cellulari, causando così un danno neuronale. Negli ultimi anni, quindi, l'interesse scientifico si è indirizzato alla comprensione dei meccanismi molecolari che guidano, fin dai primi stadi, l'aggregazione proteica patologica.

Nei nostri studi abbiamo innanzitutto cercato di riprodurre in vitro il processo di aggregazione dei petidi B-amiloidi seguendone l'andamento nel tempo con tecniche di scattering, misurando cioè la luce diffusa dalle molecole la cui intensità dipende dalle loro dimensioni. Quindi, man mano che i peptidi si aggregano, si creano complessi sempre più grandi fino alla formazione delle tipiche fibrille e la luce diffusa aumenta di conseguenza.

Cinetica di aggregazione dei peptidi B-amiloidi

Nel tentativo di verificare se l'ipericina fosse in grado di interagire coi peptidi B-amiloidi e rivelarci meglio, attraverso la sua fluorescenza, stadi diversi di aggregazione, abbiamo osservato che questo pigmento non si lega al peptide in forma monomerica, cioè all'inizio del processo di aggregazione quando è ancora prevalentemente libero in soluzione, mentre invece si lega e fluoresce ai B-amiloidi quando si trovano in una fase pre-fibrillare oligomerica, le cui dimensioni sono difficilmente rivelabili con le nostre tecniche di scattering. Questo risultato ci ha particolarmente interessato e ci siamo chiesti se questa interazione potesse influenzare tutto quanto il processo di aggregazione in fibrille. Quindi, abbiamo effettuato esperimenti in cui l'ipericina veniva studiata come un potenziale inibitore della fibrillogenesi e non solo come sonda fluorescente. In effetti, abbiamo verificato che l'ipericina tramite interazioni intermolecolari di tipo aromatico/idrofobiche, è in grado di inibire la formazione di fibrille interagendo col peptide B-amiloide in stadi precoci del processo di fibrillogenesi. Questo lavoro è stato recentemente pubblicato sulla rivista FEBS Letters.
(Antonella Sgarbossa, Dario Buselli, Francesco Lenci, In vitro perturbation of aggregation processes in B-amyloid peptides:A spectroscopic study, FEBS Letters 582 (2008) 3288–3292).

Cinetica di aggregazione dei peptidi B-amiloidi da soli e in presenza di ipericina

Va detto che l'ipericina non è la sola molecola di origine naturale che può avere un qualche effetto sui processi di aggregazione proteica patologica. Una delle molteplici strategie seguite dai ricercatori per cercare di contrastare il Morbo di Alzheimer consiste proprio nella ricerca di molecole naturali in grado di inibire e ridurre gli effetti citotossici degli aggregati pre-fibrillari. Molto studiati, in questo senso, sono i polifenoli naturali che si trovano ad alte concentrazioni in prodotti come il vino rosso, il the verde, il Ginko biloba e molte altre piante. Come l’ipericina, sono molecole aromatiche che, grazie alle loro proprietà chimico-fisiche, possono interagire coi peptidi B-amiloidi, sequestrando e auspicabilmente inattivando le forme tossiche.
Questo nostro studio, nato dalla curiosità scientifica dei ricercatori, è emblematico di come la ricerca di base, finalizzata alla produzione di conoscenze, sia in grado di generare risultati di interesse applicativo.
L’obiettivo è oggi caratterizzare al meglio queste forme iniziali di aggregazione al fine di individuare possibili percorsi terapeutici per il Morbo di Alzheimer. La ricerca sta proseguendo nella valutazione della tossicità del peptide B-amiloide in presenza di ipericina.

Antonella Sgarbossa
CNR, Istituto di Biofisica, Pisa

Ultima modifica il Martedì, 20 Novembre 2012 16:04
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