Parte I: La luce accecante del tradimento
L'aria del Nuovo Messico, nell'estate del 1945, era un velo di calore vibrante, intriso del profumo di pino e terra secca. Per noi, tredicenni al campo di danza Carmadean a Ruidoso, era l'estate della libertà, dei sogni danzati sotto un cielo infinito. Io ero Barbara, e con le mie nove amiche, tra passi di tip tap e piroette, credevamo che nulla potesse scalfire la nostra bolla di felicità infantile. La sera, la capanna in riva al fiume ci avvolgeva nel suo abbraccio accogliente, il mormorio dell'acqua a cullare i nostri sonni leggeri.

Ma quel 16 luglio, l'innocenza si infranse. Era ancora buio pesto quando un rombo viscerale, un'esplosione che sentii più nelle ossa che nelle orecchie, ci scaraventò dai letti a castello. Non un boato, ma un tuono sordo e lungo, come se la terra stessa si stesse squarciando. Il panico prese il sopravvento. La nostra insegnante, gli occhi spalancati, ci fece correre fuori, balbettando di una stufa esplosa. Ma il suo volto, pallido e tirato, tradiva una paura più profonda.

 

 

 

Parte 4: Verso un futuro di bene-essere: proposte per un paradigma di pace e sostenibilità

Abstract: Nelle parti precedenti di questo saggio, abbiamo analizzato la profonda contraddizione tra la logica di crescita infinita del capitalismo e i limiti biofisici del nostro pianeta, evidenziando come la guerra possa fungere da meccanismo per "resettare" e riattivare il sistema. Abbiamo poi approfondito le crescenti pressioni sui sistemi ecologici e le risorse, dimostrando l'insostenibilità dell'attuale percorso. In questa quarta e ultima parte, ci concentreremo sulle soluzioni. Esploreremo modelli economici e sociali alternativi, concreti e basati sui principi di resilienza, equità e sostenibilità, che mirano a porre il benessere umano e planetario al centro, per costruire un futuro di pace e prosperità duratura.

5. Proposte per modelli economici e sociali alternativi
Un paradigma alternativo dovrebbe concentrarsi sulla resilienza, l'equità e la sostenibilità ecologica, ponendo al centro il benessere umano e planetario anziché la mera accumulazione di capitale. Questo richiede un ripensamento radicale delle priorità e l'implementazione di politiche e approcci concreti, non come utopie irrealizzabili, ma come approcci basati su principi economici e sociali già esistenti o in fase di sperimentazione.



Parte 3: Oltre il limite: l'insostenibilità di un modello distruttivo


Abstract: Nelle prime due parti del nostro saggio, abbiamo delineato il paradosso fondamentale del capitalismo – la sua incessante ricerca di crescita in un pianeta finito – e abbiamo analizzato come la guerra possa inaspettatamente agire da meccanismo di "reset" per questo sistema. Abbiamo esaminato i cicli di distruzione e ricostruzione, gli stimoli derivanti dalla spesa militare e le ricadute tecnologiche, pur riconoscendo le gravi inefficienze e i costi morali del "Keynesismo militare". In questa terza parte, sposteremo la nostra attenzione sui limiti intrinseci e insuperabili che il modello capitalistico sta ormai palesemente incontrando. Esploreremo la convergenza di crisi demografiche, ambientali e di risorse, dimostrando l'illusorietà di una crescita disaccoppiata e rafforzando l'urgenza di un cambio di paradigma radicale.



 Eccomi. Io sono Caonabó, cacique della Maguana. La mia storia non è solo la mia, ma quella del mio popolo, i Taíno, e di un mondo che, in un battito di ciglia, fu spazzato via. Ascoltate, e sentirete il lamento del vento che sussurra il nome della nostra terra perduta.

L'incanto breve: l'apparizione dal nulla
Ricordo il primo avvistamento, un giorno scolpito non nel ricordo, ma nel sangue stesso della nostra isola. Il sole irradiava la superficie delle acque, ma all'orizzonte, delle ombre titaniche danzavano come spettri. Non erano le nostre agili canoe, nate dall'abbraccio degli alberi, ma fortezze galleggianti con vele candide come sudari. Dalle loro oscure viscere emersero uomini. La loro pelle, chiara come la schiuma morente delle onde, i loro volti velati da strane boscaglie, i loro abiti che brillavano con una luce metallica, innaturale. Erano un enigma, un presagio, una cosa che i nostri antenati non avrebbero mai potuto concepire.
Il loro capo, Colón, si presentò con gesti amichevoli, una maschera sottile su un volto affamato. Portava con sé oggetti luccicanti: gemme di vetro che riflettevano un arcobaleno ingannevole, campanelli che tintinnavano con una melodia che presto sarebbe diventata un pianto, stoffe dai colori vividi che nascondevano il tessuto della distruzione. Noi, il popolo di Arawak, li accogliemmo con la nostra cieca, sacra ospitalità. Offrimmo loro la linfa della nostra terra, la dolcezza delle nostre acque, l'oro che per noi era solo un frammento del sole, puro ornamento. Loro ci diedero in cambio le loro "meraviglie", e per un fugace istante, fu uno scambio sublime, ma maledetto. Eravamo curiosi, sì, ma era la curiosità dell'agnello davanti al lupo travestito. Non capivamo che quello che offrivano con una mano, avrebbero strappato con la brutalità di entrambe, strappandoci l'anima stessa.



Sono Martín Alonso Pinzón, e ho avuto l'onore di comandare la Pinta attraverso il grande Mare Oceano. È stata un'esperienza incredibile, un viaggio che ha cambiato il mondo per sempre, anche se, col senno di poi, quel cambiamento portò con sé un'ombra inaspettata.
Siamo giunti a una terra che chiamavamo le Indie Occidentali, isole rigogliose e profumate. Ricordo ancora il momento in cui la terra apparve all'orizzonte, un verde smeraldo che si levava dalle acque blu. Ci hanno accolto genti dalla pelle ramata, curiosi e amichevoli, con sguardi ingenui e gesti semplici. Il Generale Colón si raccomandò subito: "Siate gentili, figlioli. Queste anime sono pure." E noi lo fummo, o almeno ci provammo. Poi vennero le donne. Ah, le donne! Meravigliose, con i loro corpi snelli e gli occhi scuri e lucidi. Erano disponibili, sì, dopo un semplice cerimoniale fatto di canti e danze. Forse pensavano di divenire le nostre spose, spose di semidei scesi dal cielo. Eravamo uomini, marinai, lontani da casa da troppo tempo. Le notti erano calde, l'aria intrisa di profumi sconosciuti e la compagnia era dolce, troppo dolce per rifiutarla.

 

 "Il sole, a Veracruz, non era un amico, ma un carnefice. Picchiava sulla nuda pelle, prosciugava ogni goccia di speranza, trasformava l'aria in un sudario denso e umido. Ero lì, Luogotenente Diego Salazar, con il sapore del sale e della paura in bocca, mentre il destino si compiva sotto i miei occhi. La sera prima, Cortés ci aveva radunati, e la sua voce, solitamente un tuono di comando, era stata un sussurro freddo, più agghiacciante di qualsiasi urlo. "Non c'è ritorno," aveva detto, e quelle parole si erano conficcate nel petto di ogni uomo come schegge di legno marcio. "Solo la conquista. O la morte." Non era un'opzione, non era una scelta. Era una sentenza.




Il crepuscolo si posava pesante su Maní quel giorno, ma non era il crepuscolo della sera, bensì quello della disperazione. Le nostre mani, un tempo agili nel tracciare i glifi sacri sui fogli d'amatl, ora tremavano, strette l'una all'altra, impotenti. Io, Ah Kin Xoc, il più anziano tra gli scribi, colui che aveva dedicato la sua lunga vita a custodire la memoria del nostro popolo, sentivo il cuore sbriciolarsi nel petto.
Eravamo stati radunati, noi e i nostri preziosi libri, nel centro della piazza. I soldati, con le loro armature luccicanti e i volti duri, si muovevano tra noi come avvoltoi, guidati da Fra Diego, l'uomo dalla tonaca scura e dagli occhi che bruciavano di una fede che non comprendevamo. Non c'era ragione nelle loro azioni, solo una furia cieca che chiamavano "volontà divina".
Ricordo il fruscio dei passi pesanti che si avvicinavano ai nostri scaffali, dove riposavano secoli di sapere. I codici, i nostri amati libri, erano lì: il Chilam Balam che narrava le profezie, il Popol Vuh che raccontava la creazione, gli almanacchi che svelavano i cicli celesti, le storie dei nostri antenati, le formule per invocare la pioggia, le medicine per guarire i malati. Ogni pagina era intrisa del sudore della nostra gente, del genio dei nostri saggi, del respiro dei nostri dei.

 

La gestione delle emozioni, in particolare della rabbia, è una sfida che accompagna molte donne nel corso della vita, soprattutto durante la transizione menopausale. Se la ricerca si è spesso concentrata sugli aspetti depressivi della menopausa, poco si sa su come rabbia e regolazione emotiva evolvano con l’età e con le tappe riproduttive. Un nuovo studio pubblicato su Menopause dalla Menopause Society, basato su oltre 500 donne tra i 35 e i 55 anni, dimostra che sia l’età anagrafica sia quella riproduttiva influenzano profondamente i livelli di rabbia e la capacità di gestirla.

Rabbia e menopausa: un legame sottovalutato

La rabbia, definita come antagonismo verso persone o situazioni, si distingue dall’ostilità, che è più legata a una reazione di paura e a una costante prontezza al conflitto. Studi storici, fin dagli anni ’80, hanno collegato la rabbia nelle donne di mezza età a un aumento del rischio cardiovascolare: livelli elevati di “trait anger” (propensione alla rabbia) sono stati associati a un incremento della pressione arteriosa e a un maggiore spessore della parete carotidea dieci anni dopo. Altri lavori hanno evidenziato che la rabbia può aumentare la vulnerabilità a sintomi depressivi, soprattutto nelle donne che assumono terapie ormonali per la menopausa.




 

Parte 2: La Guerra: Un "Reset" Nascosto per l'Economia Capitalistica

 Guerra e capitalismo: un meccanismo di riavvio economico?Abstract: Nella Parte 1 del nostro saggio, abbiamo esplorato il profondo paradosso del capitalismo: un sistema che postula una crescita illimitata su un pianeta dalle risorse finite, alimentando critiche che affondano le radici in Malthus, Marx e l'economia ecologica. Questa tensione intrinseca genera una domanda fondamentale: come si sostiene un tale modello in un contesto di limiti crescenti? In questa seconda parte, approfondiamo la nostratesi centrale, esaminando come la guerra, lungi dall'essere un mero incidente, possa operare come un meccanismo endogeno per il riavvio e la rigenerazione dell'economia capitalistica. Analizzeremo i meccanismi attraverso cui i conflitti, pur devastanti, possono generare stimoli economici, e le critiche associate all'uso della spesa militare come volano di crescita.



Questo saggio, un'analisi approfondita delle dinamiche tra capitalismo, crescita e conflitto, è suddiviso in quattro parti per facilitarne la lettura e l'approfondimento.

Elenco delle Parti:
• Parte 1: Il paradosso del capitalismo: crescita infinita in un mondo finito 
• Parte 2: La guerra: un "reset" nascosto per l'economia capitalistica?
• Parte 3: Oltre il limite: l'insostenibilità di un modello distruttivo
 Parte 4: Verso un futuro di bene-essere: proposte per un paradigma di pace e sostenibilità

Parte 1: Il Paradosso del Capitalismo: Crescita Infinita in un Mondo Finito

Abstract: Questo articolo esamina criticamente la presunta necessità strutturale dei conflitti armati all'interno del sistema economico capitalistico. Sosteniamo che, in un mondo di risorse finite e con una popolazione in crescita costante, la logica di crescita illimitata del capitalismo porti a dinamiche intrinseche di crisi. La guerra, lungi dall'essere un mero evento esogeno, può funzionare come un meccanismo di riavvio e rigenerazione economica. Si argomenta, pertanto, l'urgenza di trascendere questo modello verso paradigmi alternativi che privilegino il controllo demografico consapevole e il benessere sociale, anziché la mera accumulazione di capitale, in un'ottica di sostenibilità ed equità globale.

 

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