Il tema dell’impatto del riscaldamento globale sugli ungulati alpini è molto dibattuto nella comunità scientifica. Grazie all’approccio multidisciplinare della ricerca è stato possibile modellizzare gli adattamenti comportamentali dello stambecco a un ambiente estremo e fornire elementi predittivi sui rischi connessi con l’inesorabile innalzamento delle temperature legato al riscaldamento globale. «Durante l’inverno le femmine di stambecco rimangono a quote relativamente basse, circa 1700 metri, con attività alimentare e spostamenti molto ridotti - dice Paola Semenzato, che ha condotto
la ricerca durante il suo Dottorato di Ricerca all’Università di Padova - per poi incrementare notevolmente il tempo dedicato all’alimentazione in concomitanza con la fusione del manto nevoso e l’inizio della
ricrescita vegetazionale, che a sua volta segue il gradiente altitudinale. Inizia così uno spostamento progressivo verso quote maggiori, fino ai circa 2600-2800 metri raggiunti in piena estate, per seguire questa “onda verde” (green wave): gli stambecchi - conclude Semenzato - riescono a sfruttare al meglio il foraggio ‘giovane’ e quindi di alto valore nutritivo, che trovano man mano che salgono di quota, rispetto a quello che troverebbero nelle aree di svernamento, dove la vegetazione è abbondante ma ’invecchia’ presto. A ottobre, con la stasi vegetativa anche in quota e le prime nevicate, si assiste ad una graduale discesa verso quote inferiori, negli assolati pendii coperti da lariceti che offrono un certo riparo durante i nevosi inverni dolomitici».
I ricercatori si sono concentrati anche sui ritmi di attività giornalieri estivi scoprendo che gli stambecchi modulano i picchi di attività alimentare in funzione della temperatura: nelle giornate più calde, gli animali si nutrono prevalentemente intorno all’alba e al tramonto, mentre trascorrono le ore centrali riposando a quote più elevate e fresche. «Lo stambecco adotta questi adattamenti comportamentali in risposta allo stress termico già a partire dai 14°C, che per la specie, particolarmente adattata ai climi freddi, rappresentano la soglia dello stress termico - ricorda Francesca Cagnacci - Spostando gli orari di foraggiamento le femmine riescono a mantenere costanti le ore giornaliere dedicate all’alimentazione. Questa capacità di compensazione non era stata rilevata precedentemente da altri studi che, non disponendo della tecnologia GPS e quindi del monitoraggio anche notturno degli animali, avevano ipotizzato un effetto negativo dello stress termico sull’attività alimentare giornaliera dello stambecco. Tuttavia, non è certo che rimanga efficace anche in futuro. Nel corso del nostro studio, infatti - sottolinea Francesca Cagnacci - queste temperature sono state raggiunte per una media di 16 giorni durante l’estate. Secondo le proiezioni climatologiche, in pochi decenni questo valore soglia verrà superato per ben 50 giorni nel periodo estivo». Secondo gli scenari climatologici analizzati dagli autori sono quindi prevedibili ulteriori modifiche dei ritmi di attività degli stambecchi, che tenderanno a muoversi maggiormente nelle ore notturne, e a cercare di spostarsi sempre più in alto.
«Nell’insieme queste condizioni pongono vari interrogativi sulla capacità di questa e di altre popolazioni presenti nell’area dolomitica di adattarsi al progressivo riscaldamento climatico - sostiene Maurizio Ramanzin -. Lo spostamento verso l’alto è infatti limitato dall’orografia tipica delle Dolomiti che sono caratterizzate da aree povere di vegetazione e pareti rocciose a quote relativamente basse, a differenza delle Alpi Occidentali, che offrono disponibilità di praterie d’alta quota dove gli stambecchi possono contemporaneamente alimentarsi e ripararsi dal caldo. Inoltre, l’esposizione sempre maggiore a giornate di caldo intenso potrebbe ulteriormente spostare i picchi di attività di foraggiamento in orario notturno. In queste condizioni - conclude Maurizio Ramanzin - le femmine riproduttive, che hanno i capretti al seguito, potrebbero faticare a spostarsi e a reperire le risorse di cui hanno bisogno».
Secondo i ricercatori, studi come questi dovrebbero essere condotti ad ampio spettro su molte specie presenti sull’arco alpino particolarmente esposte al rapido cambiamento climatico, per poter individuare tempestivamente i contesti di maggior criticità.
Link alla ricerca: https://onlinelibrary.wiley.com/doi/10.1111/ele.13750