Lo suggerisce uno studio coordinato dall’IRCCS Ospedale Policlinico San Martino di Genova con l’Università di Genova, l’Università del Piemonte orientale e l’Istituto di Tecnologie Biomediche del CNR di Segrate (Milano), appena pubblicato sul Journal for Immunotherapy for Cancer, che su modello animale ha dimostrato come questo approccio possa ridurre significativamente o debellare anche tumori molto aggressivi. I ricercatori hanno iniettato nel microambiente tumorale nanoparticelle di fibroina, una proteina della seta, usandole come una sorta di 'cavallo di Troia': le cellule tumorali, ghiotte di fibroina, hanno assorbito le nanoparticelle e con loro l’ovalbumina che contenevano e contro cui gli animali in precedenza erano stati vaccinati. La memoria immunitaria del vaccino ha così riacceso la risposta immune, che si è diretta contro il tumore. Una nuova strategia che potrebbe perciò arricchire il ventaglio delle possibilità dell’immunoterapia ampliandola ai casi in cui i tumori riescono a nascondersi alle cellule sentinella dell’organismo.
«L’immunoterapia consiste nell’armare il sistema immunitario dell’organismo contro le cellule tumorali. Il tumore, sin dalle sue primissime fasi, riesce spesso a nascondersi grazie ad una sorta di ‘mantello dell’invisibilità’ che gli consente di sfuggire al riconoscimento da parte del sistema immunitario e quindi di crescere indisturbato – spiega Gilberto Filaci, docente UniGe di Scienze tecniche di medicina e di laboratorio, direttore dell’Unità di Bioterapie del San Martino e coordinatore dello studio –. Lo scopo delle immunoterapie contro il cancro è rendere nuovamente visibile il tumore alle cellule immunitarie, così che possano riconoscerlo come ospite indesiderato e distruggerlo. Il vaccino sarebbe l’immunoterapia ideale; vaccinare il paziente contro un componente del suo tumore dovrebbe far sviluppare una risposta immunitaria capace di aggredire la neoplasia, esattamente come accade contro un agente infettivo quando si viene vaccinati contro di esso. Ma i tentativi fatti per sviluppare vaccini antitumorali hanno spesso fallito in termini di efficacia clinica perché i tumori riescono a impedire e spegnere le risposte immunitarie contro le proprie componenti molecolari; i tumori però nulla possono contro le risposte immunitarie già esistenti, come quelle che si sviluppano quando ci si vaccina da bambini contro il tetano, l’epatite virale o la difterite. I pazienti con tumore non contraggono queste malattie proprio perché mantengono la protezione immunitaria contro di esse». Da qui è nata l’idea di rendere il tumore visibile come se fosse un bersaglio contro cui si è già stati vaccinati in precedenza, in modo da dover soltanto risvegliare una risposta immunitaria già presente.
Lo studio
Per farlo i ricercatori hanno utilizzato modelli animali di melanoma e di tumore della vescica. Gli animali sono stati precedentemente vaccinati contro l’ovalbumina; quindi, una volta che il tumore si è sviluppato, sono state iniettate nella neoplasia nanoparticelle contenenti ovalbumina, tre volte a distanza di una settimana. Reindirizzando contro il tumore la potente risposta immune che deriva da una vaccinazione precedente allo sviluppo della malattia, è stato possibile l’arresto della crescita o, in alcuni casi, la scomparsa della massa tumorale.
«Per introdurre all’interno del tumore l’antigene, l’ovalbumina, contro cui era stato eseguito il vaccino abbiamo utilizzato un vero e proprio cavallo di Troia, ovvero nanoparticelle di fibroina – racconta Marina Torre, ordinario di Tecnologia Farmaceutica all’Università del Piemonte Orientale –. I tumori sono particolarmente ‘ghiotti’ di queste piccolissime particelle, che possono essere caricate di ovalbumina e iniettate direttamente nel tumore, riempiendo letteralmente le cellule cancerose di antigene. Il sistema immunitario dei topolini vaccinati si accorge subito della presenza di ovalbumina nel tessuto neoplastico, aggredendolo: questo ha consentito di arrestare la crescita del tumore e, in molti animali, ha portato alla sua completa distruzione».
«L'analisi proteomica dei tessuti ha confermato l’efficacia del trattamento ed evidenziato come il microambiente tumorale si sia drasticamente modificato – aggiunge Dario Di Silvestre, ricercatore dell’Istituto di Tecnologie Biomediche del CNR e componente del team di Proteomica e Metabolomica che ha collaborato allo studio – 245 e 332 proteine sono risultate differenzialmente espresse rispettivamente dal melanoma e dal tumore della vescica negli animali che hanno ricevuto le nanoparticelle rispetto ai controlli. L’effetto ha avuto un impatto evidente su diversi meccanismi molecolari, inclusi quelli relativi alla progressione tumorale e alla formazione di nuovi vasi sanguigni che nutrono i tumori. Approcci computazionali nell’ambito della biologia dei sistemi hanno inoltre messo in luce la centralità di specifiche proteine, nella risposta immunitaria attivata dal trattamento e nella cascata di eventi susseguenti. Ruolo che le candida a target d’indagine e approfondimento per studi futuri».
Gilberto Filaci conclude: «Questa strategia immunoterapica innovativa presenta numerosi vantaggi: può infatti essere applicata a ogni paziente, perché l’unico requisito richiesto è che sia stata ricevuta almeno una vaccinazione pediatrica che possa essere sfruttata per reindirizzare contro il tumore la risposta immune; inoltre, l’approccio è possibile contro ogni forma di tumore e la procedura di somministrazione è molto semplice e praticabile ovunque, perché è sufficiente pungere il tumore per iniettare le nanoparticelle caricate con l’antigene giusto, senza necessità di attrezzature sofisticate. Naturalmente rimane molta strada da fare prima che questo nuovo approccio terapeutico possa essere somministrato ai pazienti, ma cercheremo di percorrere rapidamente le tappe necessarie a raggiungere questo traguardo».