La malattia di Parkinson è la seconda malattia neurodegenerative più comune e affligge circa 10 milioni di persone nel mondo. È molto probabile che questo numero aumenterà nel tempo a causa del generale invecchiamento della popolazione e, sfortunatamente, non esiste ad oggi una cura. I sintomi iniziali sono tremore e problemi nei movimenti che peggiorano gradualmente, tanto che i pazienti iniziano a mostrare rigidità, lentezza, problemi di equilibrio e, negli stadi più avanzati della malattia, anche demenza. Le esatte cause della malattia di Parkinson sono ancora poco chiare e molto probabilmente il risultato di un mix tra fattori genetici e fattori ambientali.
Uno dei più importanti fattori di rischio nello sviluppo della malattia di Parkinson è il malfunzionamento di un enzima chiamato glucocerebrosidasi, responsabile per la degradazione di alcune classi di lipidi nei lisosomi delle cellule. Mutazioni nel gene che codifica per la glucocerebrosidasi destabilizzano o riducono l’attività dell’enzima, causando l’accumulo di un materiale intracellulare non digerito che ha come conseguenza un danneggiamento delle funzioni cellulari di base.
«Un modo per ripristinare la funzione della glucocerebrosidasi è di stabilizzarla o attivarla utilizzando i cosiddetti “chaperoni molecolari”, che sono delle molecole in grado di legare la glucocerebrosidasi – continua Nicoletta Plotegher -. Tuttavia, la maggior parte degli chaperoni che esistono purtroppo legano il sito attivo dell’enzima, bloccando almeno in parte la sua attività, e questo limita enormemente la loro efficacia. Noi abbiamo sviluppato un approccio completamente nuovo per migliorare la funzione della glucocerebrosidasi, utilizzando dei “nanobodies”, che sono piccoli frammenti di speciali anticorpi che vengono prodotti dai camelidi. Più precisamente, grazie a un finanziamento della Fondazione Michael J. Fox, abbiamo identificato nanobodies in grado di stabilizzare o attivare la glucocerebrosidasi legandosi a regioni dell’enzima lontane dal sito attivo.» Questo nuovo meccanismo messo a punto dagli autori dello studio permette di migliorare la funzione della glucocerebrosidasi con un meccanismo completamente nuovo. Hanno infatti scoperto che alcuni di questi nanobodies possono migliorare l’attività della glucocerebrosidasi in maniera significativa in modelli cellulari, e anche migliorare la funzione di uno dei mutanti della glucocerebrosidasi più comunemente associati alla malattia di Parkinson.
«I risultati sono ancora preliminari ma ci permettono di immaginare nuove terapie per i pazienti affetti da Parkinson – conclude Chiara Sinisgalli, prima autrice dell’articolo-. Per trasformare queste scoperte in strategie innovative per trattare la malattia di Parkinson dovremo continuare i nostri studi, in particolar modo volti a sviluppare nuovi metodi per far arrivare questi nanobodies nelle cellule del cervello danneggiate.»