Il Laboratorio di Paleoantropologia e bioarcheologia del Dipartimento di Biologia ambientale ha analizzato i resti scheletrici di un antico guerriero longobardo ritrovato in una necropoli del Veneto e conservato presso il Museo di Antropologia “G. Sergi” della Sapienza, diretto da Giorgio Manzi. Dagli studi condotti insieme al Dipartimento di Scienze dell’antichità e alla Scuola di Dottorato in Archeologia della Sapienza, in collaborazione con l’Università Cattolica di Milano, è emerso che il corpo del guerriero, a cui mancano la mano destra, il polso e parte dell’avambraccio, è una importante testimonianza di amputazione perfettamente guarita e di pratiche di cura moderne. I ricercatori hanno preso in considerazione diverse circostanze per spiegare da una parte le cause, e quindi cosa può aver portato all’amputazione dell’avambraccio, dall’altra gli esiti, ovvero come si sopravviveva 1300 anni fa, in un’epoca pre-antibiotica, a un’operazione così rischiosa.
“Il coltello era orizzontale, appoggiato al bacino mentre di norma viene sepolto al fianco del cadavere”, spiega Ileana Micarelli, primo nome dello studio. “Il braccio destro era piegato a 90 gradi, con radio e ulna tagliati al netto e al posto della mano c’erano una fibbia metallica e tracce di materiale organico, pelle o legno. L’amputazione è avvenuta con un colpo unico e senza anestesia”. Lo studio, pubblicato sul Journal of Anthropological Sciences (JASs), ha ipotizzato che l’uomo appartenesse alla prima generazione di longobardi arrivati in Italia dall’Europa dell’est, e che per una caduta da cavallo, una ferita di battaglia divenuta infetta o per la comminazione di una pena, potesse aver subito l’amputazione dell’avambraccio.
I resti scheletrici mostrano una completa guarigione e evidenti difetti ossei e dentali che possono essere riconosciute come conseguenze dell’adattamento della perdita della mano: le ossa della scapola hanno un orientamento innaturale, probabilmente assunto dopo l’incidente quando, anziché afferrare gli oggetti, il Longobardo doveva infilzarli oppure spingerli. L’incisivo destro inoltre risulta estremamente usurato e conserva residui di cuoio lasciando presuppore che l’uomo usava i denti per legare la protesi e compiere altri gesti della quotidianità.Il fatto che ulna e radio si siano perfettamente saldati, formando un callo al contatto con la protesi, e che non ci sia traccia di infezione, dimostra che l’uomo è stato curato con premura. È degno di nota infatti che i longobardi facevano largo uso di balsami a base di erbe con scopi antisettici e antiemorragici.“Sopravvivere alla perdita di un avambraccio in un’epoca in cui gli antibiotici non sono disponibili – conclude Micarelli – mostra un forte senso di attenzione e cure costanti da parte della comunità in cui viveva. Privilegi che si avvicinano all’idea di welfare moderno. Inoltre, tale sollecitudine permetterebbe di escludere l’ipotesi della punizione legale come causa dell’amputazione”.