Non c’è tre senza quattro: il 25 ottobre l’“occhio spaziale” FM4 lascerà la superficie del nostro pianeta per aggiungersi agli altri tre satelliti gemelli che compongono la Costellazione radar in banda X di COSMO-SkyMed.

Il più importante programma italiano di Osservazione della Terra giunge così con successo al completamento ad appena tre anni di distanza dal lancio del primo segmento, effettuato nel giugno del 2007 dalla base militare di Vandenberg in California (la stessa da cui FM4 lascerà il nostro pianeta). COSMO-SkyMed 4, integrando in orbita i tre omologhi già operativi, permetterà alla Costellazione di funzionare sfruttando pienamente le proprie potenzialità. Così configurato l’occhio radar della Costellazione, concepita per funzionare in modo duale (per usi sia civili che militari) ricoprirà un ruolo di sempre maggiore importanza nella protezione dell’ambiente, nella prevenzione di catastrofi naturali e in generale nella gestione di ogni tematica inerente la sicurezza del territorio.

Tre satelliti sono meglio di due. Se già nell’ultimo anno, con due satelliti in orbita, COSMO-SkyMed, il sistema satellitare per l’osservazione della Terra dell’Agenzia Spaziale Italiana, era in grado di offrire servizi e prodotti impensabili per un satellite singolo, con il lancio del terzo satellite, partito il 24 ottobre scorso dalla base californiana di Vandenberg, le sue capacità di acquisizione di immagini crescono ulteriormente. Fino a 1350 immagini radar al giorno della superficie terrestre e, soprattutto, la possibilità di sperimentare una nuova modalità di acquisizione, che aggiunge una dimensione alle immagini prodotte dal sistema. Il terzo satellite (da ricordare che un quarto seguirà all’inizio del 2010, completando il sistema) è stato infatti posto su un’orbita (in gergo si chiama tandem-like) che permetterà di sperimentare l’interferometria in combinazione con uno dei satelliti già in orbita; questa configurazione consentirà cioè di osservare la medesima zona geografica in due giorni successivi e con angoli di vista leggermente differenti per misurare eventuali deformazioni della superficie terrestre.

Atterraggio della sonda PhoenixMolte sono ancora le incognite di una viaggio umano su marte. Sia di tipo tecnologico, che di tipo scientifico, o meglio fisiologico.
Attualmente il viaggio di un sonda robotica sul pianeta rosso non può essere inferiore ai sei mesi. La distanza minima tra la Terra e Marte, ovvero quando i pianeti si trovano l’uno opposto all’altro è di 56milioni di chilometri e il razzo che avesse il compito di condurre un equipaggio umano sul suolo marziano non solo dovrebbe avere abbastanza energia per sfuggire alla gravità terrestre, ma anche per resistere all’attrazione solare. Inoltre il vettore dovrebbe avere una capacità di propellente tale da permettere all’equipaggio di lasciare il suolo di Marte vincendo la sua forza di attrazione, che sebbene minore di quella terrestre, è comunque importante. Con le attuali tecnologie è ora impresa ardua. Alcuni anni or sono è stata ipotizzata l’ipotesi di un razzo a propulsione nucleare, le cui incognite sono comunque tali che il progetto è stato per il momento accantonato.

Finalmente l’acqua sulla Luna è confermata. Negli anni passati si è dato molto scalpore alle notizie: Acqua si! Acqua no!
Ora non ci sono più dubbi, l’acqua, anche se in alcune zone solamente può esistere e conservarsi sulla superficie lunare.
In una entusiastica conferenza stampa tenuta da Antonio Colaprete, scienziato del progetto LCROSS e ricercatore della NASA presso il Centro Ricerche Ames in California, è stato data la notizia e la conferma ufficiale della scoperta dell’acqua sulla Luna.
La sonda LCROSS inviata dalla Nasa ed il suo stadio propulsore hanno impattato sul suolo lunare nel cratere Cabeus, nelle vicinanze del Polo lunare Sud, lo scorso 6 ottobre. Un pennacchio di detriti è stato espulso ad elevata angolazione al di là del bordo del cratere Cabeus, fino alla luce diretta del Sole, mentre un’altra cortina di materiale si è distribuita lateralmente.
“Ci sono parecchie evidenze che mostrano la presenza di acqua in entrambi i pennacchi di materiale creati dalla LCROSS e dallo stadio Centaur” dice Colaprete, “La concentrazione e la distribuzione dell’acqua e di altre sostanze richiede ulteriori analisi, ma possiamo già affermare fin d’ora con certezza che c’è acqua nel cratere Cabeus”.
Dall’istante dell’impatto, il team di scienziati dell’LCROSS ha iniziato l’analisi della montagna di dati che la sonda aveva raccolto e inviato a Terra. Il team si era concentrato nell’analisi dei dati spettrometrici della sonda, che avrebbero fornito i maggiori indizi sulla presenza di acqua. Uno spettrometro infatti aiuta nella determinazione della composizione di un materiale proprio esaminando la luce che questo emette o assorbe.
Esaminando le ben note “firme” spettrali dell’acqua e di altri materiali nel vicino infrarosso e i dati spettrali ottenuti dall’impatto da parte della sonda LCROSS, gli scienziati sono rimasti estasiati dalla perfetta collimazione degli spettri dell’acqua e del ghiaccio.

Fotomosaico della Luna - credits NASAOcchi puntati sulla Luna in questi giorni. E non solo per ricordare la missione Apollo 11, che giusto quaranta anni fa (era il luglio del 1969) portava per la prima volta degli esseri umani a mettere piede sul nostro satellite naturale, ma anche e soprattutto grazie a due missioni della NASA, le prime a raggiungere la Luna (senza astronauti, ovviamente) dopo dieci anni, chiamate LCROSS (Luna Crater Observation and Sensing Satellite) e LRO (Lunar Reconnaissance Orbiter). A loro spetta tra l'altro il compito di risolvere uno dei grandi punti interrogativi che ci restano sulla Luna, che per il resto è tutto sommato il corpo celeste che conosciamo meglio. Ovvero, c'è acqua lassù?

Buzz Aldrin sulla Luna 20 luglio 1969Il 20 luglio del 1969 l’uomo, con Neil Armstrong, metteva per la prima volta piede su un corpo celeste che non era la Terra. Quell’impresa apriva e chiudeva un’era. L’era della conquista dello spazio e della competizione tra USA e URSS. Quel primo fondamentale passo, che apriva l’uomo all’esplorazione umana del Cosmo, rappresentava però anche la implicita fine della corsa alla Luna. Poco più di tre anni dopo, con la missione Apollo XVII, si concludevano le missioni umane con obiettivo il nostro satellite e il mondo spaziale, allora unito verso quell’unico obiettivo, perdeva interesse verso il pallido chiarore della Luna, che tornava ad essere oggetto dei rimandi romantici a cui poeti e romanzieri e poi ancora cineasti, si sono ispirati. Il mondo spaziale tutto, in primo luogo ancora USA e URSS, rivolgeva la propria attenzione verso altri corpi celesti, Venere, Marte, Mercurio e poi Giove, lo stesso sole, mentre l’uomo nello spazio faceva scegliere alle due potenze spaziale vie diverse, lo shuttle, per gli USA, le stazioni orbitanti per l’URSS.

Gli ultimi dati del satellite dell’ESA per lo studio della radiazione cosmica di fondo a microonde (CMB, Cosmic Microwave Background) sono i protagonisti di un convegno che si protrarrà fino a domani 5 dicembre a Ferrara. Circa 200 scienziati provenienti da tutto il mondo stanno valutando i risultati preliminari e non pubblicati della missione, che già lasciano intravedere una ricostruzione dell’età oscura dell’universo in grado di smussare alcuni fra gli attriti fino a ora irrisolti tra il punto di vista dell’astrofisica e quello della cosmologia.

L’immagine mostra le curve del campo magnetico della nostra galassia: è stata ottenuta osservando a tutto cielo la luce polarizzata emessa dalla polvere interstellare presente nella Via Lattea.

L'immagine delle curve del campo magnetico della nostra galassia sono arrivate fino a noi grazie ai rivelatori a bordo del satellite Planck dell’Agenzia Spaziale Europea. L'immagine è stata ottenuta osservando a tutto cielo la luce polarizzata emessa dalla polvere interstellare presente nella Via Lattea. La mappa rilasciata oggi è stata ottenuta utilizzando i rivelatori a bordo di Planck come se fossero l’equivalente astronomico di occhiali da sole polarizzati. Un’immagine inedita nella quale vortici, anse e archi ricalcano la topografia del campo magnetico nella nostra galassia, la Via Lattea.

È partita oggi dalla base di Kourou, nella Guiana Francese, a bordo del razzo Soyuz-Fregat: la sonda GAIA (acronimo di Global Astrometric Interferometer for Astrophysics) ha l’ambizioso compito di misurare con precisione movimento, distanza, cambiamento di luminosità e posizione di oltre un miliardo e mezzo di stelle, circa un centesimo dei 200 miliardi di astri della nostra galassia. Si tratta del più grande censimento stellare mai tentato: i sensibili strumenti della sonda saranno anche in grado di osservare i cosiddetti ‘quasar’, corpi celesti la cui luminosità è circa un milione di volte più debole di quelli visibili ad occhio nudo.

“La missione GAIA rivoluzionerà le nostre conoscenze della Via Lattea ed, in particolare, indagherà sulla nascita ed evoluzione di stelle e pianeti extrasolari”, dice Barbara Negri, responsabile ASI dell’Esplorazione e Osservazione dell’Universo. “Ci si aspetta, infatti, che GAIA riveli la storia della nostra Galassia, descrivendo con grande precisione il suo stato attuale e permettendoci così di prevedere la sua futura evoluzione. Il Data Centre realizzato a Torino presso ALTEC, che utilizzerà anche il supercalcolatore FERMI installato presso il CINECA di Bologna, è stato dimensionato per poter gestire ed archiviare l’enorme mole di dati che saranno raccolti dal satellite GAIA durante la sua vita operativa”

L’asteroide Vesta non è solo uno dei corpi più antichi del nostro Sistema solare, ma ci sta rivelando che la sua storia evolutiva è molto più complessa di quanto si ritenesse finora. L’ultimo studio sul corpo celeste appena pubblicato sulla rivista Nature,  realizzato grazie ai dati raccolti dallo spettrometro italiano VIR (Visual and InfraRed spectrometer) a bordo della sonda Dawn della NASA  indica infatti che l’olivina, un minerale presente nelle regioni più interne dei pianeti rocciosi come la Terra, risulta quasi del tutto assente nei grandi bacini meridionali di Vesta, che si pensa si siano formati a seguito di impatti con altri corpi celesti e che avrebbero asportato gli strati più esterni della crosta ed esposto il suo mantello. L’olivina è stata invece osservata,  sorprendentemente, in grande abbondanza in una  regione lontana dai bacini sud, nell’emisfero nord.

 

 

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