Redazione

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The effectiveness of eugenol — an eco-friendly, plant-based insecticide that is mainly extracted from cloves — in killing the larvae of mosquitoes can be greatly enhanced by the addition of chemicals called synergists, says a new study.

In a study, published February in Scientific Reports, scientists show that eugenol works persistently and safely against the Aedes aegypti mosquito that spreads viruses responsible for dengue, yellow fever, chikungunya and Zika. According to the World Mosquito Program, 390 million people are infected each year with dengue, and hundreds of thousands are affected by the other three diseases.

According to the study, no effective vaccines or specific treatments are available against dengue, Zika, and chikungunya and the best way to stem the transmission of these diseases is to reduce the population density of the vector mosquitoes at their larval stage.

Widely used synthetic pesticides such as carbamates, organophosphates and pyrethroids have the drawback that mosquitoes grow resistant to them over time. Extensive and long-term use of synthetic insecticides has led to their accumulation in water, soil and food and there are reports of hormonal disruptions in people engaged in spraying them.

Con il progressivo aumento dell’aspettativa di vita, aumenta anche la necessità di ricorrere alle protesi ortopediche per patologie dovute a invecchiamento, incidenti o disfunzionalità congenite. Il gruppo di ricerca di Elettromagnetismo Pervasivo di Ingegneria a Roma “Tor Vergata”, diretto dal prof. Gaetano Marrocco, ha recentemente sviluppato una nuova tecnologia wireless applicabile a qualunque tipo di protesi che riesce a individuare e localizzare la presenza di micro-fratture, non rilevabili dall’esterno, prima che esse danneggino la protesi. I risultati della ricerca sono stati pubblicati sulla rivista IEEE Journal of Electromagnetics, RF and Microwaves in Medicine and Biology.
“Ogni anno, più di 2,9 milioni di persone in tutto il mondo si sottopone a protesi articolari. Sebbene siano realizzate per durare anni, le statistiche rivelano che il 5%- 10% di esse andrà incontro a cedimenti prematuri. Una delle cause principali è la generazione di micro-fratture dovute alla fatica”: il prof Gaetano Marrocco, docente di Wireless Electromagnetic Technologies a Ingegneria “Tor Vergata”, fornisce alcuni dati che delineano l’importanza della revisione non invasiva delle protesi ortopediche. “Le micro-fratture sono un problema ancora lontano dalla risoluzione, nonostante i recenti progressi nella progettazione ne abbiano ridotto significativamente l’incidenza”. Le micro-fratture infatti possono essere rilevate durante gli screening periodici ma utilizzando apparecchiature specialistiche, grazie ai raggi X o alla risonanza magnetica nucleare.

 

Nessun macchinario ma un semplice foglio di carta per la produzione di uno strato sottile di perovskite, il materiale impiegato nella realizzazione di celle solari nella tecnologia fotovoltaica di nuova generazione. La perovskite mostra efficienze simili al silicio ma può essere prodotta attraverso tecniche di stampa partendo da inchiostri liquidi. Il nuovo metodo, è stato sviluppato da un team di ricercatori e ricercatrici dell'Università degli Studi di Roma “Tor Vergata” e dell'Università di Zanjan, in Iran, e costituisce una tecnica a basso sosto che può essere utilizzata da chi non possiede i macchinari necessari per la formazione di film a perovskite: basta infatti un semplice foglio di carta. La scoperta è stata pubblicata sulla rivista internazionale ad accesso aperto iScience - Cell Press.

 

Sono stati presentati i risultati dello studio sierologico “Ricerca di IgG specifiche per SARS-CoV-2 nel Personale dell’A.O.U. Città della Salute e della Scienza di Torino e dell’Università degli Studi di Torino e valutazione della risposta immunitaria post-vaccinazione anti-COVID 19”.

 Sono intervenuti, introducendo lo studio, il Dott. Giovanni La Valle e il Dott. Lorenzo Angelone, rispettivamente Direttore generale e Direttore sanitario dell’A.O.U. Città della Salute e della Scienza di Torino, il Dott. Antonio Scarmozzino, Direttore Dipartimento Qualità e Sicurezza delle cure, la Prof.ssa Paola Cassoni, Direttrice Dipartimento Medicina di Laboratorio, la Prof.ssa Rossana Cavallo, Direttrice S.C. Microbiologia Virologia U, P.I. (Principal Investigator) dello studio. E, successivamente, presentando specifici risultati dello studio: la Dott.ssa Gitana Scozzari, S.C. Direzione Sanitaria P.O. Molinette, Disegno dello Studio di coorte: obiettivi, fasi e metodi; il Dott. Giovannino Ciccone, S.S.D. Epidemiologia Clinica e Valutativa, Risultati della fase pre-vaccinale: sieroprevalenza; la Dott.ssa Enrica Migliore, S.S.D. Epidemiologia Clinica e Valutativa, Risultati della fase post-vaccinale: risposta sierologica; la Prof.ssa Cristina Costa, S.C. Microbiologia Virologia U Risultati della fase post-vaccinale: analisi di immunità cellulare; il Prof. Antonio Amoroso, S.C. Immunogenetica e Biologia dei Trapianti U, Risultati della fase post-vaccinale: analisi delle frequenze HLA; il Dott. Maurizio Coggiola, S.C. Medicina del Lavoro U, Rischio Occupazionale Ospedaliero Dati di Sorveglianza Sanitaria.

 

Messo a punto da un gruppo di ricerca dell’Università di Bologna un fago anti-cancro.

Si tratta di un virus innocuo per gli esseri umani, ingegnerizzato geneticamente e modificato chimicamente per eliminare in modo selettivo solo le cellule tumorali. Il trattamento, mirato e non invasivo, viene attivato dalla luce.

Non tutti i virus vengono per nuocere. Un gruppo di ricerca dell’Università di Bologna ha messo a punto una nuova terapia mirata contro il cancro che si basa sull’azione di un fago – un virus che infetta i batteri – geneticamente modificato. Lo studio – che ha conquistato la copertina della rivista Nanoscale – è stato realizzato nell’ambito del progetto NanoPhage, sostenuto da Fondazione AIRC per la ricerca sul cancro. I risultati mostrano come sia possibile ingegnerizzare un particolare tipo di virus, il fago M13, in modo che possa eliminare selettivamente solo le cellule tumorali.

 

Lo studio, pubblicato dalla prestigiosa rivista Gastroenterology, è importante per comprendere a fondo la patologia e per identificare possibili marker molecolari utili sia nella diagnostica sia nella terapia

Gli scienziati del Centro di Biotecnologie Molecolari dell’Università di Torino hanno scoperto un fattore indispensabile per l’insorgenza del tumore al pancreas, identificato nel ruolo della proteina chiave p130Cas. Il loro studio è stato pubblicato dalla prestigiosa rivista Gastroenterology.

Il tumore al pancreas rimane a oggi uno dei tumori più letali e complessi da individuare: la scarsa percentuale di sopravvivenza è principalmente dovuta al fatto che la malattia, nelle sue fasi iniziali, non si manifesta con sintomi eclatanti. Inoltre, la comprensione di tali fasi è ancora limitata, così come la conoscenza di marcatori molecolari per la diagnosi precoce. I tumori pancreatici hanno origine a partire dalle cellule esocrine, responsabili della produzione degli enzimi pancreatici, che permettono la digestione: tali cellule possono andare incontro a una metaplasia acino-duttale (termine che indica la trasformazione di una tipologia cellulare in un’altra differente), che rappresenta il primo step nella progressione tumorale sostenuta dall’oncogene Kras. Gli oncogeni sono geni che, se subiscono delle mutazioni, causano lo sviluppo del tumore; in più del 90% dei tumori pancreatici sono state infatti individuate mutazioni di Kras. Tramite screening genetici ad ampio spettro, la proteina adattatrice p130Cas è emersa come un potenziale interattore di Kras e possibile candidato per predire la suscettibilità allo sviluppo del tumore pancreatico.

 

The variant’s rapid spread, different vaccine strategies and varying levels of immunity worldwide make the pandemic’s future difficult to model.
On 11 January, just seven weeks after the Omicron variant was first reported, the World Health Organization (WHO) warned of a “tidal wave” of infection washing from west to east across the world. Fifty of the 53 countries in Europe and central Asia had reported cases of Omicron, said Hans Henri Kluge, the WHO’s regional director for Europe.

 

Dallo studio della composizione e delle età di cristallizzazione dei granati magmatici delle quattro principali eruzioni del Vesuvio emerge come il Vesuvio dovrebbe avere ancora circa mille anni di quiescenza, anche se non si possono escludere eruzioni più piccole. La ricerca, guidata dal Politecnico di Zurigo e a cui ha collaborato l’Università degli Studi di Milano, è stata pubblicata su Science Advances.
Il vulcano Vesuvio potrebbe rimanere in uno stato di quiescenza per altri mille anni, ma nel frattempo non possono essere esclusi episodi di eruzioni minori: questa la conclusione a cui è giunta una ricerca, coordinata dal Politecnico di Zurigo, che annovera tra i co-autori Francesca Forni, ricercatrice di Vulcanologia dell’Università degli Studi di Milano. I risultati sono stati recentemente pubblicati su Science Advances.


Anche il tipo di attività lavorativa influisce nell’andamento del declino cognitivo. È quanto rilevato da un nuovo studio che coinvolge SISSA e Università di Padova e che ha preso in esame un ampio campione di popolazione italiana.

Non sempre il lavoro logora, anzi. Un recente ricerca dimostra che ha un ruolo attivo nel mantenere il nostro cervello in salute. “Abbiamo dimostrato l’influenza che ha l’occupazione sulle prestazioni cognitive” racconta la Professoressa Raffaella Rumiati, neuroscienziata cognitiva della SISSA e autrice del paper Protective factors for Subjective Cognitive Decline Individuals: Trajectories and changes in a longitudinal study with Italian elderly, pubblicato recentemente su European Journal of Neurology. “Gli studi per identificare i fattori che influiscono sulla nostra attività mentale nel corso dell’invecchiamento sono numerosi ed era già nota l’influenza di altri fattori legati alla qualità della vita come l’istruzione formale e continua. Dalla nostra analisi emerge come alle differenze nell’invecchiamento cognitivo normale e patologico contribuisca anche il tipo di attività lavorativa”.

L’analisi: cervelli resistenti e in declino


Lo studio, condotto da un team di scienziate dell’Università di Padova (Dip. FISPPA), SISSA – Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati e IRCSS Ospedale San Camillo di Venezia, ha quantificato il contributo relativo di fattori demografici (età e sesso), comorbilità, istruzione e tipo di occupazione a ciò che tecnicamente viene chiamato riserva cognitiva, ovvero la capacità di resilienza del cervello rispetto a un danno cerebrale dovuto a una patologia o all’invecchiamento.
I partecipanti sono stati valutati con una serie di test neuropsicologici e successivamente suddivisi in tre tipologie di profili sulla base dei risultati: soggetti a rischio di declino cognitivo, soggetti con declino lieve e soggetti con declino avanzato. I test sono stati condotti altre due volte a distanza di alcuni anni: successivamente i partecipanti sono stati classificati come “resistenti” o “in declino” a seconda che avessero mantenuto o peggiorato il loro profilo rispetto alla loro performance iniziale. Istruzione e occupazione lavorativa: importanti per mantenersi giovani La novità più importante emersa nell’analizzare i risultati è che, oltre all’età e all’istruzione, fattori già studiati nella letteratura sul tema, anche l’occupazione si è rivelata come un predittore delle prestazioni dei partecipanti alle diverse fasi somministrazioni dei test, come spiega la Professoressa Sara Mondini dell’Università di Padova: “Abbiamo confermato l’osservazione che l'istruzione protegge le persone potenzialmente a rischio di sviluppare il declino cognitivo ma, soprattutto, abbiamo dimostrato che questi stessi individui avevano svolto professioni più complesse degli individui degli altri due gruppi, i soggetti con declino cognitivo lieve e avanzato. Lo
studio ha poi evidenziato come il gruppo dei “resistenti” mostrasse in media livelli superiori di istruzione e un’attività lavorativa che prevedeva mansioni più complesse rispetto al gruppo “in declino””.


Un risultato che dimostra i benefici della mobilitazione cognitiva promossa dal life-long learning (l’apprendimento permanente) e, più in generale, come connessione sociale, senso costante di uno scopo e capacità di essere indipendenti contribuiscono alla salute cognitiva e al benessere generale nell’affrontare l'invecchiamento.

 

Operare sul metabolismo degli aminoacidi per interferire con la stabilità genomica della cellula tumorale e influenzare la risposta della cellula agli agenti chemioterapici. Tutto ciò proteggendo le cellule sane dagli effetti tossici e potenziando l’efficacia del trattamento sulle cellule tumorali. I risultati ottenuti sono stati di recente pubblicata sulla rivista Developmental Cell a cura di un gruppo di ricercatori dell’IFOM e dell’Università degli Studi di Milano coordinati dal Professor Marco Foiani, a capo del programma “Integrità del Genoma” dell’IFOM e Direttore Scientifico dello stesso Istituto.
“Da oltre 15 anni – spiega Marco Foiani – il nostro gruppo di ricerca sta indagando come le condizioni metaboliche della cellula, che sono influenzate anche dal nostro regime nutrizionale, possono influenzare la stabilità del genoma.” Quello che emerge oggi dai laboratori di IFOM è che un circuito molecolare noto per modulare la risposta al danno al DNA causato dagli agenti chemioterapici stabilisce un evidente nesso di causa ed effetto tra il metabolismo degli aminoacidi e l’integrità del DNA.

 

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