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Researchers at the University of Tsukuba show that in non-alcoholic fatty liver disease, regimented exercise has beneficial effects on the liver that are unrelated to weight loss, and they reveal the mechanisms underlying these benefits

Non-alcoholic fatty liver disease (NAFLD) is the most common liver disorder worldwide, affecting as much as a quarter of humanity. It is characterized by fat accumulation in liver cells and may progress to inflammation, cirrhosis and liver failure. Now, researchers at the University of Tsukuba reveal the positive effects, beyond the expected weight-loss benefit, of exercise on the liver.

NAFLD is associated with unhealthy behaviors such as overeating and a sedentary lifestyle. In Japan 41% of middle-aged men have NAFLD and 25% will progress to non-alcoholic steatohepatitis (NASH) and hepatic dysfunction.

Weight reduction is fundamental to NAFLD management. Unfortunately, achieving a targeted bodyweight without supervision is difficult, and maintaining this over time even more so. Hitherto, exercise was considered adjunctive to dietary restrictions for weight loss but the other benefits such as reduced hepatic steatosis (fatty change) and stiffness are being increasingly recognized. However, the underlying mechanisms remain unclear.

Pubblicato in Scienceonline

 

The image shows aluminum (orange) in a neuron in a donor's brain tissue with familial Alzheimer’s disease. The same neuron revealed positive immunostaining (brown) for phosphorylated tau (pTau). Merging these images showed that aluminum and pTau are co-located inside the same cell.

 



A new study published in the Journal of Alzheimer’s Disease Reports (JADR) continues to support a growing body of evidence that aluminum contributes to the pathogenesis of Alzheimer’s disease (AD). Researchers found aluminum co-located with phosphorylated tau protein, which is an early initiator of AD

This study builds upon two earlier published studies (Mold et al., 2020, Journal of Alzheimer’s Disease Reports) from the same group. The new data, also published in the Journal of Alzheimer’s Disease Reports, demonstrate that aluminum is co-located with phosphorylated tau protein, present as tangles within neurons in the brains of early-onset or familial Alzheimer’s disease (AD). “The presence of these tangles is associated with neuronal cell death, and observations of aluminum in these tangles may highlight a role for aluminum in their formation,” explained lead investigator Matthew John Mold, PhD, Birchall Centre, Lennard-Jones Laboratories, Keele University, Staffordshire, UK.

Pubblicato in Scienceonline


Gianluca ha una rara malattia genetica che lo costringe, a soli 27 anni, ad un trapianto di fegato. Eppure il suo, di fegato, in un'altra persona funzionerebbe perfettamente e potrebbe salvarle la vita. La soluzione, tanto semplice da immaginare quanto complessa da mettere in pratica, si chiama "trapianto domino": una volta trovato un donatore per Gianluca, basta trovare un altro paziente a cui donare il suo organo, e salvare così due vite con un solo fegato. Ed è proprio quello che accade al Policlinico di Milano: ora Gianluca e Federico (nomi di fantasia) sono appena tornati a casa, e per entrambi inizia una nuova vita grazie alla generosità che sta a monte di ogni trapianto.


La malattia di Gianluca si chiama leucinosi: consiste nella completa mancanza di un enzima che è fondamentale per poter metabolizzare gli aminoacidi assunti col cibo. Senza questo enzima, che è prodotto dal fegato ma anche in tutto il resto dell'organismo, il ragazzo è costretto a diete strettissime ed è costantemente esposto a complicanze gravi, come compromissioni neurologiche e respiratorie. Per la leucinosi, Gianluca è da sempre seguito da Francesca Menni, referente per le malattie metaboliche della Pediatria ad Alta Intensità di Cura del Policlinico di Milano. Ma per guarire ha bisogno di un trapianto, perché la sostituzione del suo fegato correggerebbe il difetto metabolico e gli permetterebbe di tornare a una vita normale. Il fegato di Gianluca però è sano: gli manca soltanto quell'enzima, e in un altro paziente senza leucinosi non darebbe problemi perché il suo organismo lo produrrebbe senza difficoltà.

Pubblicato in Medicina

Possibili siti di mutazioni potenzialmente più aggressive sia sulla proteina umana ACE2 (azzurro) che sulla proteina Spike del SARS-CoV-2 (marrone) predette nello studio del MolBNL@UniTS

 

Uno studio di un gruppo di ricercatori del King’s College London, dell’Università degli studi di Trieste e del Centro di Ingegneria Genetica e Biotecnologie (ICGEB) di Trieste, pubblicato oggi sulla rivista Nature, ha identificato il meccanismo che porta alla fusione delle cellule infettate con Sars-Cov-2 e un farmaco in grado di bloccare questo processo.

Attraverso uno screening di laboratorio su oltre 3.000 farmaci già approvati per la terapia di diverse malattie, il gruppo di ricercatori italiani e inglesi guidati da Mauro Giacca, professore dell’Università di Trieste, docente di Cardiovascular Sciences al King's College di Londra, e responsabile del Laboratorio di Medicina Molecolare dell’ICGEB, ha scoperto che la niclosamide, un farmaco usato da più di 50 anni per le infezioni intestinali, è in grado di bloccare gli effetti dannosi che la proteina Spike di Sars-CoV-2 causa alle cellule.

Pubblicato in Medicina



In uno studio appena pubblicato sulla prestigiosa rivista internazionale Physiological Reviews, ricercatori e studiosi del Dipartimento Scienze Mediche dell’Università di Torino e Fondazione Ricerca Molinette presentano una nuova prospettiva medica che parte dall’ipotesi che la molecola CD38 e le sue attività enzimatiche esercitino un ruolo nella infezione da Covid-19.

CD38 è una molecola la cui origine risale a circa 950 milioni di anni fa nella storia della vita. Nell’uomo è stata identificata nel contesto degli sforzi del Workshop sugli Antigeni di Differenziamento, alla fine degli anni ’70. Il Laboratorio di Immunogenetica dell’Università di Torino ha caratterizzato gene e struttura di CD38 e soprattutto ne ha anticipato le applicazioni in clinica (1). Inizialmente la molecola CD38 è stata considerata come un marcatore di popolazioni cellulari circolanti nel sangue e particolare attenzione è stata dedicata alla leucemia linfatica cronica, di cui è diventata un indicatore di stadiazione (2). Oggi la molecola è ampiamente impiegata in clinica come target di anticorpi monoclonali nella terapia del mieloma multiplo .

Pubblicato in Medicina

Nel medio e lungo periodo, gli shock climatici incentivarono, attraverso l’ampliamento dei diritti politici e di proprietà, una cooperazione altrimenti difficile tra le élite che detenevano il potere decisionale e altri gruppi che possedevano invece strumenti utili per superare la crisi.

Nella Mesopotamia dell’Età del Bronzo, le crisi climatiche hanno incentivato, nel lungo periodo, lo sviluppo delle prime forme stabili di stato e hanno così facilitato la cooperazione tra le élite politiche e il resto della popolazione. Lo mostra uno studio pubblicato sulla rivista PNAS e firmato da due studiosi dell’Università di Bologna e dell’Università Eberhard Karls di Tubinga (Germania). L’indagine ha analizzato l’impatto degli shock climatici che si sono succeduti nella regione tra il 3100 e il 1750 avanti Cristo. Per farlo, gli studiosi hanno utilizzato un approccio econometrico basato sulla teoria dei giochi e applicato alla prima dettagliata banca dati sull’evoluzione climatica e istituzionale dei maggiori 44 stati mesopotamici.

Pubblicato in Storia


Uno studio dei ricercatori dell’Università Statale di Milano e Policlinico di Milano, pubblicato su Nature Communications, prende in analisi il ruolo del sistema immunitario nella distrofia muscolare di Duchenne.
Pubblicato su Nature Communications uno studio dei ricercatori dell’Università Statale di Milano e del Policlinico di Milano, in cui viene dimostrata una vera e propria disregolazione immunitaria che partecipa ad aggravare la fragilità muscolare ed il progressivo danneggiamento dei muscoli distrofici.

L’alterazione presente nel sistema immunitario di un individuo con distrofia muscolare si riflette infatti nell’alterata maturazione dei globuli bianchi del sangue (linfociti) che finiscono per migrare nei muscoli rilasciando sostanze infiammatorie che attivano segnali di danno con riduzione della massa muscolare e conseguente formazioni di tessuto fibrotico cicatriziale. “Questa scoperta cambia la visione eziopatologica della distrofia muscolare di Duchenne ed offre la possibilità di indagare nuovi trattamenti farmacologici volti a controllare la non corretta attivazione del sistema immunitario dei soggetti con distrofia muscolare” commenta il coordinatore della ricerca Yvan Torrente, neurologo del “Centro Dino Ferrari” dell’Università Statale di Milano e del Policlinico di Milano.

Pubblicato in Medicina


Semplificare il sistema dei controlli per garantire che sulle tavole dei consumatori finiscano cibi che corrispondono, per qualità e origine, a quanto indicato in etichetta. È il risultato di un lavoro di ricerca condotto da due ricercatori del Dipartimento di Statistica e Metodi Quantitativi dell’Università di Milano-Bicocca, Francesca Greselin e Andrea Cappozzo, in collaborazione con i colleghi Ludovic Duponchel dell’Università di Lille (Francia) e Brendan Murphy dell’University College Dublin (Irlanda).

I promettenti risultati dell’analisi condotta sono stati descritti in uno studio dal titolo “Robust variable selection in the framework of classification with label noise and outliers: Applications to spectroscopic data in agri-food” (DOI: 10.1016/j.aca.2021.338245), pubblicato da “Analytica Chimica Acta”, una prestigiosa rivista nell’ambito della chimica analitica e della spettroscopia. Data l’eccezionalità dei risultati ottenuti, l’articolo è stato posto in primo piano, con un artwork che lo evidenzia sulla copertina della rivista.

Pubblicato in Scienza generale


Pubblicato su «Nature Communications» con il titolo “Exploiting pyocyanin to treat mitochondrial disease due to respiratory complex III dysfunction” lo studio del team interdisciplinare dell’Università di Padova coordinato dalla Professoressa Ildiko Szabo in cui viene dimostrata l’efficacia della piocianina nel trattamento di alcune patologie mitocondriali. Lo studio è stato effettuato sia con cellule di pazienti che in modelli preclinici.
La ricerca, interamente finanziata dalla Fondazione Telethon, è frutto della collaborazione dei gruppi di ricerca dell’Ateneo patavino che ha come leader i Professori Ildiko Szabo, Rodolfo Costa e Cristiano De Pittà del Dipartimento di Biologia, Mario Zoratti del CNR e Carlo Viscomi del Dipartimento di Scienze Biomediche e Massimo Zeviani del Dipartimento di Neuroscienze e apre la strada ad una nuova farmacologia di alcune malattie mitocondriali.

Pubblicato in Medicina

I più antichi uomini moderni che hanno abitato l'Europa, vissuti circa 45.000 anni fa, hann.o contribuito a formare il patrimonio genetico degli umani attuali, in particolare delle popolazioni dell'Asia orientale. E nei loro genomi sono emersi ampi tratti di DNA dell'Uomo di Neandertal
I primi Sapiens europei hanno contribuito alla formazione del patrimonio genetico delle popolazioni umane successive, in particolare - sorprendentemente - degli attuali abitanti dell'Asia orientale. Lo ha scoperto un team di ricerca internazionale sequenziando i genomi dei più antichi uomini moderni che hanno abitato l'Europa, i cui resti - datati con altissima precisione - risalgono a circa 45.000 anni fa e sono stati rinvenuti nella grotta di Bacho Kiro, in Bulgaria.


Nei genomi sequenziati, inoltre, gli studiosi hanno identificato ampi tratti di DNA dell'Uomo di Neandertal, da cui emerge che questi Sapiens avevano avuto antenati Neandertaliani nel loro albero genealogico, tra 5 e 7 generazioni precedenti. Gli incroci tra Sapiens e Neandertal erano quindi probabilmente molto frequenti quando i primi esseri umani moderni arrivarono in Europa. Questi importanti risultati – appena pubblicati su Nature – nascono da un ampio lavoro di ricerca, coordinato da studiosi del National Archaeological Institute with Museum - Bulgarian Academy of Sciences (Bulgaria) e del Max Planck Institute for Evolutionary Anthropology (Germania), a cui ha collaborato anche l’Università di Bologna con la professoressa Sahra Talamo, direttrice del nuovo laboratorio di radiocarbonio BRAVHO (Bologna Radiocarbon laboratory devoted to Human Evolution).

Pubblicato in Antropologia

Medicina

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