Anziani: vitamina D insufficiente - serve più sole

Uno studio condotto dall’Osservatorio Grana Padano e dall’Associazione Brain and Malnutrition Onlus (B&M) ha correlato la Vitamina D (25-OH) plasmatica non solo con ciò che mangiamo, ma anche con l’esposizione al sole, che permette all’organismo di sintetizzare questa vitamina. I volontari dell’associazione B&M hanno indagato le abitudini alimentari, i livelli di vitamina D nel sangue e l’esposizione al sole di 450 persone con età maggiore di 60 anni e in possesso degli esami ematochimici inerenti ai livelli di 25OH vitamina D, senza però aver consumato supplementi (integratori) di tale vitamina. Dall’indagine si evince che l’esposizione media al sole è di circa 1,6 ore a settimana e che con gli alimenti il campione intervistato assume circa 2.5 microgrammi al giorno di vitamina D. La concentrazione ematica media di Vitamina D (25-OH) rilevata dallo studio è di 17,8ng/ml (DS± 9,4), insufficiente per garantire il fabbisogno di molte funzioni dell’organismo. Dal campione preso in esame si evince che, a parità di vitamina D assunta dagli alimenti, chi si espone di più al sole ha una concentrazione di vitamina D nel sangue più elevata.
Il riciclo ai tempi del Paleolitico: premiata il 6 febbraio una ricerca di dottorato con il Tübingen Prize

Il riconoscimento alla giovane Flavia Venditti che grazie alle analisi condotte presso il Laboratorio Sapienza LTFAPA, ha accertato il riciclo degli strumenti in pietra già 400.000 anni fa.
Già 400.000 anni fa, gli antichi cacciatori-raccoglitori riciclavano antichi strumenti di pietra ormai inutilizzati per produrre nuove schegge: questo il senso dello studio condotto da Flavia Venditti, che le è valso il Tübingen Prize for Older Prehistory and Quaternary Ecology 2020. La ricerca, intitolata “The recycling phenomenon during the Lower Paleolithic: the case study of Qesem Cave (Israel)” e svolta durante il dottorato di ricerca in Archeologia alla Sapienza, è stata condotta attraverso analisi microscopiche e chimiche presso il “Laboratory of Technological and Functional Analyses of Prehistoric Artefacts”, diretto da Cristina Lemorini del Dipartimento di Scienze dell’Antichità che è stata anche la tutor di tale ricerca di dottorato.
Flavia Venditti ha dimostrato come antichi cacciatori-raccoglitori vissuti 400.000 anni fa nel sito del Paleolitico Inferiore di Qeserm Cave (Israele) riciclassero antichi strumenti di pietra inutilizzati per produrre nuove schegge piccole e taglienti. Attraverso le analisi di laboratorio, è stato possibile diagnosticare tracce riconducibili alla lavorazione delle carcasse animali attraverso attività di macellazione, ma anche di lavorazione di osso, pelli e persino di piante e tuberi. Le particolari condizioni di preservazione degli oggetti analizzati hanno reso possibile identificare micro-residui di osso, tessuti animali e grasso relativi al loro utilizzo. Nei suoi esperimenti, Flavia Venditti dimostra come questi piccoli strumenti fossero particolarmente adatti a compiere specifiche attività di taglio con un alto grado di accuratezza. Inoltre, attraverso la distribuzione degli oggetti nel sito, la ricercatrice ha messo in luce una chiara divisione spaziale delle attività nelle diverse aree della grotta.
Attraverso il suo lavoro la ricercatrice è stata in grado di evidenziare come i nostri antenati del Paleolitico si impegnassero in azioni mirate di riutilizzo delle risorse disponibili, aprendo la strada a ricerche future sull’argomento.
Prodotto per la prima volta il ghiaccio cubico perfetto

I grafici mostrano il cambiamento della diffrazione di neutroni, via via che il materiale viene riscaldato da 130 a 220 K, e cambia struttura. Le figure schematiche in alto rappresentano la disposizione delle molecole di acqua nei tre differenti tipi di ghiaccio, che si ottiene dall'analisi di questi dati: ghiaccio XVII, ghiaccio Ic (cubico) e ghiaccio Ih (esagonale).
Ricercatori del Cnr-Ifac hanno prodotto per la prima volta ghiaccio con struttura cristallina a simmetria cubica praticamente perfetta, denominato ghiaccio Ic. La scoperta, ovviamente, non interessa i barman e i cocktail ma ha un grande rilievo scientifico e apre il campo a numerosi studi di base nell’ambito della fisica del ghiaccio. Lo studio, pubblicato su Nature Materials, è realizzato in collaborazione con laboratori internazionali per spettroscopia neutronica
Si fa presto a dire “un cubetto di ghiaccio”… In realtà, il ghiaccio desta da sempre un alto interesse in ambito scientifico-tecnologico, soprattutto per lo stretto legame con la biosfera ma anche per aspetti più strettamente fisici, inclusi quelli strutturali. Benché sia un materiale di esperienza comune, numerosi studi, fin dall'inizio del secolo scorso, hanno chiarito che esistono diverse forme ("fasi") di ghiaccio: ad oggi ne sono note 18, tra stabili e metastabili a differenti condizioni di pressione e temperatura, che si distinguono per la loro struttura cristallina.
Il ghiaccio comune, quello che si ottiene nel freezer a pressione ambiente, è denominato ghiaccio Ih, e possiede una struttura a simmetria esagonale (figura). In linea di principio, ne esiste anche una versione a simmetria cubica detta ghiaccio Ic (figura), ma fino ad oggi ghiaccio cubico strutturalmente puro non era mai stato prodotto. Questo materiale è stato ottenuto per la prima volta da un gruppo di ricercatori dell’Istituto di fisica applicata Nello Carrara del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr-Ifac) di Sesto Fiorentino, coordinati da Lorenzo Ulivi. “La struttura cubica del ghiaccio è prevista teoricamente, ma in pratica avevamo solo delle realizzazioni approssimative. Fin dalla metà del secolo scorso – spiega Ulivi – i numerosi tentativi perseguiti con diverse strategie di sintesi, ad esempio la condensazione di ghiaccio da vapore o il congelamento di nano-gocce di acqua, hanno sempre portato a produrre ghiaccio cubico con consistenti difetti, denominato ghiaccio Isd (stacking-disordered), una via di mezzo tra ghiaccio cubico ed esagonale”.
Allarme influenza: i consigli per combatterla

Come l’anno scorso, i dati confermano che l’influenza sta aumentando a inizio 2020. I fattori ambientali che favoriscono il diffondersi dell’influenza sono molteplici: sbalzi termici, freddo invernale e la permanenza in ambienti troppo caldi e affollati al lavoro, a scuola e nei momenti di svago al chiuso.
In effetti, non è solo colpa delle rigide temperature. Con la ripresa della piena attività di scuole e uffici, le possibilità di contagio aumentano ed è prevedibile un incremento dei casi di influenza, che possono colpire sia l’apparato respiratorio che gastroenterico. Per questo motivo l’Osservatorio Grana Padano (OGP), con i suoi esperti, ha valutato le abitudini alimentari di circa 5500 italiani al fine di stilare i consigli per migliorare le difese immunitarie e affrontare al meglio l’influenza.
Squalo bianco: antico e prezioso abitante del Mar Mediterraneo ora è a rischio di estinzione

Per la prima volta uno studio realizzato dalla Sapienza in collaborazione con la Stanford University, la Virginia Tech University e diversi istituti di ricerca italiani di settore ha stimato la presenza e la distribuzione del predatore nel nostro bacino. I risultati, che evidenziano il drastico calo della specie negli ultimi anni, sono stati pubblicati sulla rivista Fish and Fisheries
Non tutti sanno che lo squalo bianco popola da secoli il Mediterraneo: protagonista di numerosi racconti e celebri pellicole, il re degli squali nuota nei nostri mari e le testimonianze storiche dei suoi avvistamenti risalgono addirittura al Medioevo.
Al vertice della catena alimentare marina, lo squalo bianco è una presenza indispensabile per la vita stessa dei mari; tuttavia, gli esemplari che abitano il “Mare Nostrum” appartengono a una delle popolazioni meno conosciute e più minacciate al mondo, soprattutto a causa delle innumerevoli e spesso deleterie attività umane. Il drastico ridimensionamento subito negli ultimi anni ha spinto la International Union for the Conservation of Nature (IUCN) a inserirlo tra le “specie in pericolo critico” nel Mediterraneo.
Bees boost Brazil’s forest restoration, scientists say

Some of the most important tree species for the restoration and conservation of tropical forests rely heavily on bees as transporters of pollen. Bees facilitate pollination over great distances, increase the genetic diversity of plants, and stimulate the reproduction and resilience of native species in degraded ecosystems. That’s why conserving these declining insects should be a priority in forest restoration projects, according to a study by Brazilian scientists published in Ecological Applications.
The study analysed how different bee species responded to changes in Brazilian forest landscapes. It investigated how increasing bee populations may boost pollen dispersal when planting trees in restoration projects, and also help re-establish diverse forests in disturbed areas in Brazil. Researchers carried out fieldwork in an agricultural area of the Atlantic Forest in the country’s south-east, which had been turned into sugarcane fields.
Only about seven per cent of the original vegetation remains there, in small fragments of primary forest comprised of discontinuous canopies covered by vines and bordered by invasive grasses. The team also included two other less degraded areas as reference ecosystems. One of these contained contahighly diverse trees reintroduced by researchers about two decades ago to increase forest cover, while the other consisted of wetlands, dominated by herbaceous vegetation.
In each of these landscapes, researchers installed “pan traps” — a standard method for capturing bees — with the aim of collecting insect samples at the peak of the flowering season, between October 2015 and January 2017.
Organoidi (cervelli in provetta) per studiare i tumori cerebrali pediatrici

A centinaia ne sono stati creati in laboratorio per comprendere i meccanismi genetici del cancro del sistema nervoso centrale dei bambini. I risultati di un lavoro congiunto, coordinato dall’Università di Trento e svolto in collaborazione con la Sapienza, l'Ospedale pediatrico Bambino Gesù di Roma e con Irccs Neuromed, sono stati pubblicati sulla rivista Nature Communications. Lo studio apre nuove prospettive di ricerca poiché potrebbe permettere in futuro di produrre grandi quantità di tumori in provetta e di effettuare screening ampi per individuare nuovi farmaci contro il cancro al cervello
Fanno ammalare gli organoidi (cervelli in provetta) per trovare una cura che funzioni nella realtà sui piccoli pazienti colpiti da tumori cerebrali. Gli organoidi, creati a centinaia nei laboratori dell’Università di Trento, sono utili per comprendere i meccanismi genetici del cancro al cervello in età pediatrica e a trovare nuove cure per queste malattie ancora poco curabili.
Il gruppo coordinato da Luca Tiberi, dell’Armenise-Harvard Laboratory of Brain Cancer al Dipartimento Cibio dell’Università di Trento, ha sviluppato in questo modo un nuovo modello per studiare i tumori cerebrali nei primi anni di vita.
La ricerca è stata svolta dall’Università di Trento, che ha coordinato un gruppo di ricerca che coinvolge la Sapienza, l’Ospedale pediatrico Bambino Gesù di Roma e l’Irccs Neuromed, Istituto neurologico mediterraneo, di Pozzilli (Isernia). Lo studio ha potuto contare sul sostegno della Fondazione Armenise-Harvard, di Fondazione Airc per la ricerca sul cancro e della Fondazione Caritro di Trento.
Gli organoidi sono stati utilizzati per ricreare dei tumori in laboratorio e i risultati aprono nuove prospettive nella ricerca contro i tumori al cervello poiché in futuro potrebbero permettere di produrre una grande quantità di tumori in laboratorio a costi ridotti rispetto alle precedenti tecnologie e perciò di effettuare screening ampi per valutare nuovi farmaci.
Bambini e allergie: "La prima barriera è il latte materno"

Nel nuovo numero di "A Scuola di Salute" le indicazioni degli esperti del Bambino Gesù per prevenire la malattia allergica con interventi precoci. In Italia ne soffre 1 bambino su 4
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28 gennaio 2020
Il latte materno è la prima, importante barriera protettiva contro le varie forme di allergia che, in Italia, colpiscono circa 1 bambino su 4. Possono comparire ad ogni età, anche nel primo anno di vita, e sono influenzate dalla predisposizione genetica e dai fattori ambientali, in particolare quelli dei Paesi occidentali, dove il numero degli allergici è in rapida crescita. Nel nuovo numero di "A Scuola di Salute" il magazine digitale a cura dell'istituto Bambino Gesù per la Salute, diretto dal prof. Alberto G. Ugazio, le indicazioni degli esperti per prevenire la malattia allergica, dall'allattamento al seno all'introduzione nella dieta di mamme e bebè di prebiotici e probiotici.
La forma più frequente tra i bambini italiani è la rinite allergica che colpisce il 35% dei ragazzi delle scuole medie inferiori; seguono l'asma allergico, la dermatite atopica e le allergie alimentari. Negli ultimi decenni queste malattie hanno registrato un'impennata soprattutto nei Paesi occidentali o con stili di vita "occidentalizzati" dove alcuni fattori, come l'igiene sempre più accurata e l'alto livello di inquinamento degli agglomerati urbani, ne favoriscono l'insorgenza e/o il peggioramento. Anche la predisposizione genetica ha un ruolo determinante: se mamma e papà non sono allergici, il rischio che un figlio sia allergico è del 10 - 15%. La percentuale sale al 30% se uno dei genitori è allergico; se lo sono entrambi si arriva anche all'80%.
Il fallimento di molte aziende nel passaggio all'olio di palma sostenibile


Alla vigilia del World Economic Forum di Davos, l’incontro annuale a cui le aziende accorreranno per presentare le loro agende per un mondo più sostenibile, il WWF presenta le Palm Oil Buyers Scorecard ossia le valutazioni delle aziende per il loro supporto all’impiego di olio di palma sostenibile, con lo scopo di affrontare e risolvere la problematica della deforestazione nelle aree tropicali. E i risultati non sono dei migliori.
Nessuna azienda infatti ha raggiunto il voto più alto nel punteggio stabilito dal WWF, che ha esaminato le strategie messe in atto dai brand globali nella riduzione degli impatti sugli habitat tropicali generati da un approvvigionamento non sostenibile dell’olio vegetale più consumato al mondo.
Infarto del miocardio: un batterio intestinale ne favorisce l’insorgenza

Un nuovo studio tutto italiano ha dimostrato per la prima volta che un batterio intestinale, Escherichia coli, circola nel sangue nei pazienti con infarto e si concentra nel trombo facilitandone la crescita. I risultati, pubblicati sulla rivista European Heart Journal, aprono nuove prospettive terapeutiche fra le quali lo sviluppo di un vaccino che prevenga il processo trombotico
Le malattie cardiovascolari, che includono infarto del miocardio e ictus, sono le principali cause di morbilità e mortalità nel nostro Paese. Ogni anno più di 100.000 italiani sono colpiti da queste due malattie con un aggravio economico e sociale per le famiglie e lo Stato.
La maggior parte degli infarti si verifica a causa della formazione di un coagulo di sangue (trombo) che va a ostruire una o più arterie coronarie (le arterie che portano sangue ossigenato e sostanze nutritive al muscolo cardiaco), ma i meccanismi che ne sono alla base non sono stati completamente chiariti.
Uno studio tutto italiano ha dimostrato per la prima volta che un batterio di origine prevalentemente intestinale, Escherichia Coli, circola nel sangue dei pazienti con infarto e si concentra nel trombo coronarico favorendone l'insorgenza. I risultati sono stati pubblicati sulla più prestigiosa rivista di cardiologia al mondo, European Heart Journal.
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